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Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2013 alle ore 17:41.
L'ultima modifica è del 15 marzo 2013 alle ore 06:41.

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La crisi diplomatica tra India e Italia ha fatto un nuovo salto di qualità quando la Corte Suprema di New Delhi ha chiesto all'ambasciatore italiano Daniele Mancini di non lasciare il Paese e il ministero degli Esteri indiano ha annunciato che, nell'ambito della revisione delle relazioni bilaterali, il processo di insediamento nel nuovo ambasciatore indiano a Roma è stato sospeso.

Secondo i media indiani il capo della missione diplomatica italiana a New Delhi avrebbe rifiutato le limitazioni impostegli dalla Corte.

Il deterioramento della situazione è avvenuto dopo che mercoledì il primo ministro Manmohan Singh aveva definito «inaccettabile» la decisione italiana di non fare tornare a New Delhi i due marò accusati di aver ucciso due pescatori indiani nel corso di una missione antipirateria al largo delle coste del Kerala. L'incidente risale al 15 febbraio del 2012 ed è avvenuto in un braccio di mare contiguo alle acque territoriali indiane, ma fuori dalla giurisdizione esclusiva di New Delhi.

In base al provvedimento preso dalla Corte suprema, entro il 18 marzo Mancini dovrà spiegare ai giudici i motivi per cui il Governo italiano ha deciso di non rispettare l'accordo in base al quale i due fucilieri di Marina avrebbero dovuto fare ritorno in India entro il 22 marzo, al termine del permesso elettorale concesso loro dai giudici.

La decisione di limitare la libertà di movimento di un ambasciatore straniero apre un capitolo particolarmente delicato nello scontro tra India e Italia. Secondo un'autorevole fonte diplomatica italiana si tratterebbe «di una violazione chiara, seria e fuori da ogni realtà della Convenzione di Vienna» che intaccherebbe l'immunità di un ambasciatore che «ha fornito garanzie in quanto rappresentante di uno Stato e non certo a titolo personale».

Un parere non condiviso dal ministero degli Esteri indiano che ieri ha fatto sapere che l'ordine della Corte non violerebbe l'immunità diplomatica di Mancini perché l'ambasciatore italiano, nel momento in cui ha garantito che al termine del permesso elettorale i marò avrebbero fatto ritorno in India, avrebbe accettato di sottoporsi alla giurisdizione della Corte.

Secondo l'ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, il ministro degli Esteri Terzi avrebbe trattenuto i marò ben prima, ma gli sarebbe stato impedito dal Consiglio dei ministri. Una circostanza smentita da Terzi medesimo.

L'escalation degli ultimi giorni giunge dopo che lo scorso 18 gennaio la Corte suprema indiana anziché esprimersi su quale dei due Stati tra Italia e India avesse la giurisdizione sul caso ha disposto - peraltro senza che per il momento si sia mosso nulla - l'istituzione di un tribunale speciale per dirimere la questione.

Il passo successivo è stato, da parte italiana, la richiesta che fosse avviato un dialogo bilaterale per la ricerca di una soluzione diplomatica del caso. A questo punto qualcosa sembra essersi inceppato nei rapporti tra i diplomatici del ministero degli Esteri indiano e il Governo di New Delhi. La richiesta di autorizzazione ad avviare un negoziato fatta dai primi è rimasta inevasa per giorni fino a che la «mancata risposta» indiana ha spinto Roma ad annunciare che i marò, rientrati nel frattempo in Italia per votare, non sarebbero tornati in India.

Una mossa quella della Farnesina, fatta ben dieci giorni prima del termine per il rientro dei due fucilieri. Come se il Governo italiano avesse voluto lasciare un'ulteriore finestra temporale, e quindi negoziale, prima di violare l'accordo preso con la Corte suprema.

Cautele spazzate via dal vortice politico-mediatico indiano innescato da un'opposizione ansiosa di capitalizzare sulla vulnerabilità del Governo che teme di venir giudicato filo-italiano (per via di Sonia Gandhi) e da un'opinione pubblica in cui si fondono nazionalismo e insicurezze post-coloniali, rendendola estremamente sensibile alle offese arrecate da un Paese occidentale.

marco.masciaga@ilsole24ore.com

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