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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2013 alle ore 15:33.

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A dieci anni dalla guerra in Iraq emerge il vero vincitore di quello scontro: la dinamica Turchia del premier islamico-moderato, Recep Tayyip Erdogan. Dopo il clamoroso rifiuto del Parlamento di Ankara nel 2003, al passaggio delle truppe Usa sul suo suolo per l'apertura del secondo fronte, gli uomini d'affari della Mezzaluna sono diventati i leader incontrastati del ricco mercato iracheno.
Nonostante i rapporti politici tra Baghdad e Ankara restino tesi per la questione irrisolta dei curdi, l'export turco verso l'Iraq ha fatto un clamoroso balzo l'anno scorso. «Nel 2012 – spiega Ferdinando Pastore del'Ice di Istanbul – le esportazioni dalla Turchia verso l'Iraq sono cresciute più del 30%, a 10,8 miliardi di dollari (erano 8,3 miliardi nel 2011), contro i 13,1 miliardi di export verso la Germania», principale mercato di sbocco di Ankara.

Per ora, ma non ancora per molto. «Il commercio è un elemento importante del riorientamento turco verso i Paesi confinanti a favore del Medio Oriente, Africa del Nord e Asia centrale turcofona. La crisi dell'euro rende ancora più pressante questa svolta poiché la Turchia cerca nuovi mercati», dice Ozgur Unluhisarcikli, direttore ad Ankara del German Marshall Fund. Che sia questo alla fine il cuore della politica estera neo-ottomana portata avanti negli ultimi dieci anni da Ahmet Davutoglu, il ministro degli Esteri turco, e teorizzata nelle oltre 600 pagine del suo libro "Profondità strategica"? La pensano così in molti in Turchia ma a colpire è stata la previsione di Erdem Basci, il governatore della Banca centrale turca, che il 28 febbraio ha detto che «l'Iraq rimpiazzerà la Germania come maggior mercato quest'anno, in un contesto dove l'export di Ankara verso la Ue è sceso al 48% del totale nel 2012 dal 60% del 2010».

La parte del leone in Iraq la fanno i contractor turchi: la Calik Energy ha vinto la costruzione di due centrali a gas a Mosul e a Karbala per un contratto da 800 milioni di dollari. La banca turca Yapi Kredi, la joint venture tra la famiglia Koc e UniCredit, prevede di aprire filiali in Iraq per seguire i businessmen turchi che hanno messo radici dopo il viaggio al seguito del premier Erdogan. La zona prediletta dai turchi è, per contiguità territoriale, l'Iraq del Nord, che assorbe il 70% dell'export, grazie al passaggio di frontiera di Habur Gate, un enorme punto di transito dove si respira sabbia, costellato di lunghe file di camion che devono attendere anche per giorni, pieni di cemento, materiale edile, e prodotti manifatturieri di ogni tipo in cambio di autocarri che trasportano petrolio nel senso inverso.

I prodotti turchi (dai tessuti a quelli per la casa) la fanno da padroni al souk e nei moderni showroom costruiti da imprese turche nelle periferie di Erbil, la capitale dell'Iraq settentrionale. Qui numerose aziende hanno acquisito commesse importanti nel campo delle infrastrutture e delle costruzioni, cosi come è in costante crescita il flusso commerciale. Anche il moderno aeroporto di Erbil l'hanno costruito a tempi da record aziende turche, le più aggressive dell'Asia centrale. I businessmen turchi qui sono la maggioranza assoluta: non a caso ci sono voli diretti, sempre strapieni, da Istanbul e Ankara a Erbil. Fino a quando il premier iracheno e sciita Nouri al-Maliki non tenterà di mettere in pratica le sue minacce, come quando parlò della Turchia come «Stato ostile». Ma finora le sue intemperanze sono state frenate da Washington.

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