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Questo articolo è stato pubblicato il 19 marzo 2013 alle ore 06:41.

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Sul caso dei marò è braccio di ferro tra India e Italia sull'immunità diplomatica. I giudici indiani la mettono in discussione, decidendo che l'ambasciatore italiano non potrà lasciare il Paese senza il permesso della Corte suprema indiana, mentre il governo di Nuova Delhi apre al dialogo e, attraverso il portavoce del ministro degli Esteri, ammette l'esistenza di «un conflitto di giurisdizione», che «deve essere esaminato». Interviene l'Italia, che in una nota del governo italiano, diffusa dalla Farnesina avverte: «La decisione della Corte Suprema di precludere al nostro ambasciatore di lasciare il Paese senza il permesso della stessa Corte costituisce una evidente violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche che codifica principi universalmente riconosciuti». L'Italia ribadisce che il caso vada risolto secondo il diritto internazionale: «In questo senso abbiamo proposto di deferire all'arbitrato o altro meccanismo giurisdizionale la soluzione del caso». Non solo: secondo l'Italia, il rientro in India dei due fucilieri italiani «sarebbe stato in contrasto con le nostre norme costituzionali».
Dopo l'annuncio da parte italiana che i due fucilieri della Marina Salvatore Latorre e Massimiliano Girone, accusati per l'uccisione di due pescatori indiani al largo del Kerala, non faranno ritorno nel Paese, ieri la Corte suprema indiana è intervenuta "a gamba tesa": ha prorogato al 2 aprile, giorno in cui è prevista la prossima udienza, il divieto di espatrio per l'ambasciatore Daniele Mancini, che a parere dei magistrati non godrebbe più dell'immunità diplomatica. Di diverso avviso l'Unione europea: Michael Mann, portavoce dell'Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza Ue Catherine Ashton, ha però sottolineato che nella vicenda dei marò «la Convenzione di Vienna deve essere rispettata da entrambe le parti». L'Ue, ha aggiunto, «non fa parte della disputa legale» tra i due Paesi, «perciò non può prendere posizione».
I giudici indiani, invece, considerano «automaticamente perso il diritto» all'immunità dell'ambasciatore italiano: conseguenza - hanno spiegato - del fatto che il diplomatico il 9 marzo ha sottoscritto un "affidavit", una sorta di dichiarazione giurata che garantiva il rientro dei marò. «La Convenzione di Vienna del '61 - sottolinea il docente di diritto internazionale dell'università La Sapienza Enzo Cannizzaro - prevede l'assoluta inviolabilità degli agenti diplomatici, che non possono essere sottoposti ad alcuna forma di arresto o di detenzione». Proprio a questa Convenzione hanno fatto riferimento: hanno fatto allusione, senza citarlo, a un paragrafo della Convenzione in base al quale un agente diplomatico che gode dell'immunità giurisdizionale e che promuove una procedura - come la firma apposta a garanzia del rientro dei due fucilieri in India - non può invocare questa immunità. Ma la firma di questo documento da parte dell'ambasciatore è stata messa per conto dello Stato italiano. E poi la rinuncia da parte del diplomatico all'immunità va sempre espressa.
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L'ESCALATION
Il divieto per l'ambasciatore
La Corte suprema indiana ha dichiarato che l'ambasciatore italiano a Delhi, Daniele Mancini, ha perduto l'immunità diplomatica.
I giudici indiani hanno prorogato fino al prossimo 2 aprile il divieto di lasciare il Paese che gli era stato imposto giovedì scorso
La reazione italiana
In una nota del Governo italiano si legge che «la decisione della Corte Suprema di precludere al nostro ambasciatore di lasciare il Paese senza il permesso della stessa Corte costituisce un'evidente violazione della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche»

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