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Questo articolo è stato pubblicato il 20 marzo 2013 alle ore 07:40.

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Quando un presidente degli Stati Uniti va in visita in Israele e Palestina, non dovrebbe essere per meno di un processo di pace. Quello fra i due avversari è congelato da quasi tre anni, non si vedono opportunità per un disgelo né Barack Obama sembra offrire speranze concrete. Se le aspettative sono troppo alte, saranno probabilmente deluse.

"Lo ha detto il presidente Obama in un'intervista alla tv israeliana: viene ad ascoltare. Penso sia un buon approccio", commenta Andreas Reinicke. "Non bisogna attendersi troppo. Noi all'Unione Europea, tuttavia, ci aspettiamo che nel 2013 sia chiarita la struttura definitiva del processo di pace". Ambasciatore tedesco a Damasco fino all'inizio dell'anno scorso, ora Reinicke è l'inviato speciale della Ue per il processo di pace e rappresentante dell'Unione nel Quartetto formano Stati Uniti, Russia, Onu e, appunto Europa. Il suo compito è fissare una road map credibile, con direzione e tempi di percorrenza del processo di pace. Fino ad ora di cammino non ne è stato fatto molto.

Ambasciatore, in che senso Barack Obama deve ascoltare? La questione dovrebbe essergli ormai nota.
Naturale, conosce il dossier ma deve avere anche il polso della volontà dei partner. In Israele c'è un nuovo governo che ha dichiarato la sua volontà di lavorare per il processo di pace: almeno così sembra. Questo del presidente americano è il primo passo. Ci aspettiamo ve ne siano altri.

Lei ha parlato di struttura. Qual è quella che l'Europa ha in mente?
Il quadro già indicato nel 2011: territorio e sicurezza. È ancora valido. Il termine di discussione quanto alle frontiere è la linea di demarcazione del 1967, con la possibilità di scambi di territorio. Riguardo alla sicurezza Israele sa che gli verrà garantita dalla comunità internazionale. L'importante è che, se riprende la trattativa, sia chiaro a tutti che il negoziato arriverà a una soluzione.

Quale è il ruolo della Ue? Fino ad ora non sembra primario.
Nel corso degli anni è sempre stata fondamentale nel fissare l'agenda: il riconoscimento palestinese, il ritiro degli insediamenti, la soluzione dei due stati per due popoli. Questo è un contributo notevole. Senza contare l'aspetto finanziario, il nostro contributo alla stabilità economica palestinese.

Il problema oggi sono gli Stati Uniti. Non sembra che l'amministrazione Obama voglia farsi coinvolgere fino in fondo nel processo di pace.
Aspettiamo e vediamo. Nella sua visita il presidente andrà anche a Ramallah, il nuovo segretario di Stato John Kerry conosce perfettamente il problema. È vero, gli Stati Uniti oggi hanno altre priorità, ma questo è il cuore dei conflitti dell'intera regione.
Non ci sono successi che il Quartetto possa vantare. Quale è la sua vera funzione?
È lo strumento che unisce l'intera comunità internazionale su una posizione comune. È una istituzione importante, inevitabile.

Al momento esiste qualche ragione di ottimismo per il processo di pace?
Sono ottimista perché non c'è scelta. Non esiste alternativa alla soluzione dei due stati che dobbiamo consolidare entro quest'anno. Credo che la cooperazione del mondo arabo sia essenziale: soprattutto per garantire la fine del conflitto con Israele. Per questo credo che gli arabi debbano essere coinvolti nel dialogo.

Anche gli arabi hanno priorità diverse da Israele, al momento.
È vero ma la questione palestinese è un fatto emotivo per tutti gli arabi, per tutto il mondo islamico. È sempre al centro delle sue preoccupazioni.

Lei non teme l'esplosione di una nuova Intifada?
Esito a fare previsioni. Sarebbe una scelta sbagliata ma certo osserviamo una crescente e preoccupante tensione fra i palestinesi.

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