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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2013 alle ore 20:17.

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È morto in circostanze finora misteriose, come si addice a una vita come la sua. Boris Berezovsky, 67 anni, era stato il primo degli oligarchi russi, il più vicino allo zar Boris Eltsin negli anni delle privatizzazioni selvagge russe. Poi era caduto in disgrazia, con l'arrivo di Vladimir Putin che detesta gli uomini d'affari che si occupano di politica, e nel 2000 aveva scelto l'esilio a Londra, abbandonando in patria il proprio impero di petrolio e canali tv. Ma dall'esilio Berezovsky ha dichiarato guerra a Putin, cercando di costruire un movimento d'opposizione, arrivando a puntare il dito contro il presidente russo accusandolo per la morte di Aleksandr Litvinenko, l'ex agente del Kgb avvelenato dal polonio nel 2006. Allora qualcuno lo definì nemico il numero uno del presidente russo, ricercato in una patria in cui non avrebbe più potuto tornare.

Il corpo di Boris Abramovich Berezovsky è stato trovato sabato mattina a Londra, la famiglia parla di morte improvvisa ma il suo avvocato, Aleksandr Dobrovinskij, ha fatto la parola «suicidio», collegandolo ai debiti in cui a poco a poco era finita la fortuna di quello che un tempo era stato chiamato da Forbes il Padrino del Cremlino. Dmitrij Peskov, portavoce di Putin, dice di non conoscere la reazione del presidente, aggiungendo che «la morte di una persona non può mai sollevare emozioni positive». Racconta di una lettera che Berezovsky avrebbe inviato qualche mese fa a Putin, chiedendo di poter tornare in patria. Chiedendo perdono per i propri errori. Peskov non lascia conoscere la risposta.

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