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Questo articolo è stato pubblicato il 27 marzo 2013 alle ore 11:04.

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Se da ieri i fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono di nuovo a New Delhi, circondati da un clima più ostile di quello che avevano lasciato lo scorso febbraio, lo devono solo in parte alla sconcertante catena di errori commessi dagli attori coinvolti in una vicenda in bilico tra farsa e tragedia.

Una parte delle responsabilità va fatta risalire anche al decreto legge del 12 luglio 2011 - fortemente voluto dagli armatori - che ha aperto la strada all'imbarco dei militari sulle navi civili battenti bandiera italiana e alla convenzione dell'11 ottobre dello stesso anno tra il ministero della Difesa e la Confederazione italiana armatori (Confitarma). È nell'articolo 5 del decreto legge e nei sette articoli che compongono l'accordo tra militari e armatori che si aprono le falle in cui sono scivolati prima i due marò e poi un pezzo della credibilità internazionale dell'Italia.

A consegnare i due fucilieri alla giustizia indiana è stata la decisione di fare entrare in un porto indiano la petroliera Enrica Lexie, nonostante l'incidente al centro delle indagini fosse avvenuto al di fuori delle acque territoriali di New Delhi. A oltre un anno di distanza da quell'episodio non c'è ancora chiarezza sulle responsabilità.

«La prima ambiguità - spiega una fonte diplomatica - va fatta risalire alla creazione di una situazione in cui dei militari, impegnati per conto del proprio Paese in una missione internazionale, si trovano in servizio a bordo di un'imbarcazione di proprietà di un armatore che paga il ministero della Difesa per il servizio di protezione che riceve. Equiparando di fatto i militari a contractor privati». Proprio la decisione di privilegiare l'impiego di uomini della Marina militare al posto di «guardie giurate armate» (come previsto, in alternativa, dal decreto legge) ha finito per creare una situazione poco chiara circa la catena di comando sulla nave. E se il decreto ha la colpa di consentire e anzi incoraggiare l'impiego di militari, la convenzione tra ministero della Difesa e armatori ha quella di fare poca chiarezza sulla catena di comando.

Il documento, che dovrebbe spiegare nel dettaglio chi decide cosa, intacca solo in minima parte le prerogative del comandante della nave, attribuendo al nucleo militare di protezione solo «le funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria limitatamente alle operazioni compiute nella repressione di un attacco dei pirati, ferme restando, per il resto, le attribuzioni del Comandante della nave». Un concetto ribadito anche dove il documento parla esplicitamente del fatto che «le scelte inerenti la navigazione e la manovra della nave saranno di competenza del comandante».

Una formulazione che non dovrebbe lasciare dubbi circa la responsabilità di chi ha deciso che la Enrica Lexie attraccasse a Kochi, rendendo possibile l'arresto dei due marò. Ma qualche perplessità sulle responsabilità del ministero della Difesa resta comunque. Anche perché tra i doveri dell'armatore elencati dalla convenzione c'è quello di offrire ai militari a bordo «servizi di comunicazione per lo scambio di informazioni con la catena di comando e controllo nazionale», oltre che l'obbligo a «informare tempestivamente il Comando in capo della squadra navale della marina militare di ogni possibile implicazione per lo sbarco del nucleo militare di protezione in relazione alla rotta della nave». Norme che, insieme al silenzio del ministero della Difesa sulla vicenda, danno adito al sospetto che le gerarchie militari non fossero del tutto all'oscuro della catastrofica decisione di attraccare in Kerala e consegnare di fatto i marò alle autorità indiane.

Una volta commesso questo grave errore, secondo la fonte diplomatica, l'intera partita è stata giocata in maniera infelice. Prima «non richiamando l'attenzione internazionale sul vulnus arrecato alla lotta alla pirateria dalla mossa indiana», poi sul piano negoziale «continuando a tenere un atteggiamento buonista» e quindi «piegandosi dopo un'iniziativa come la violazione della Convenzione di Vienna da parte di New Delhi. Con il risultato di confermare l'immagine di un Paese fragile e incapace di esprimere autorità e senza ottenere alcun vantaggio». Anche perché le assicurazioni circa il fatto che in caso di condanna i due marò non saranno mandati al patibolo sono poca cosa, dato che in India la pena di morte è comminata, per volere della Corte Suprema, solo «in the rarest of rare cases».

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