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Questo articolo è stato pubblicato il 27 marzo 2013 alle ore 08:25.
Al Colle nulla è cambiato. Nel senso che quelle parole pronunciate dal capo dello Stato sulla esigenza di numeri certi alle Camere restano intatte. E del resto sarebbe davvero inusuale se Giorgio Napolitano a distanza solo di qualche giorno cambiasse la logica con cui ha affidato il pre-incarico a Pier Luigi Bersani. Dunque, quelle condizioni e quei paletti restano validi anche se il segretario Pd li vorrebbe forzare per arrivare a un governo di minoranza.
E sembra anche che il segretario Pd voglia prendersi più tempo – e rinviare l'appuntamento al Colle a dopo giovedì – preparandosi a ingaggiare un braccio di ferro con il Colle. Ecco, questa viene considerata un'ipotesi sciagurata così come viene liquidata come «fantasiosa» la possibilità che Napolitano possa dimettersi prima per accelerare l'elezione del suo successore. «Lo aspettiamo entro Pasqua», scandivano ieri i consiglieri più stretti del capo dello Stato mostrando che anche sul paletto dei tempi nulla è cambiato e non si consentiranno tattiche dilatorie.
In realtà, la giornata di ieri di Napolitano è stata occupata dalla vicenda delle dimissioni del ministro Terzi che ha impresso una nuova svolta negativa a tutta la crisi politica. Già perché il Governo Monti, sia pure in ordinaria amministrazione, consentiva comunque un argine di sicurezza a fronte di fibrillazioni che possono ancora toccare l'Italia. E invece – ora – non può più reggere visto lo scivolone sui marò e questo accelera l'esigenza di soluzioni di governo.
Al momento il Quirinale non fa che aspettare l'esito delle consultazioni di Bersani tenendo bene in mente almeno due precedenti. Quello in cui fu lo stesso Napolitano a imporre a Romano Prodi – nella breve stagione del suo Governo 2006-2008 – una maggioranza al Senato perfino al netto dei senatori a vita. Questo fu oggetto di un braccio di ferro con Prodi che pure aveva favorito la sua elezione al Colle ma il Professore non la spuntò. L'altro precedente che viene citato è quello di Oscar Luigi Scalfaro quando nel '98, dopo aver dato il pre-incarico a Prodi – che poi restituì perché non aveva i numeri – lo affidò a D'Alema chiedendogli addirittura che si costituisse un nuovo gruppo parlamentare per formare una maggioranza. Insomma, i precedenti citati dal Colle riportano tutti allo stesso dilemma: numeri e patti politici, l'una cosa è frutto dell'altra.
Ed ecco che qui si arriva al possibile braccio di ferro che Bersani potrebbe ingaggiare con Napolitano: il governo di minoranza. Ma anche su questa ipotesi – accolta con qualche scetticismo – al Colle sono netti: bisogna comunque che sia frutto di un patto politico chiaro. Già perché un Esecutivo di minoranza può nascere solo grazie a un gioco di presenze-assenze che rendono necessario un accordo politico. Al momento – infatti – Pd, Sel e pure i montiani non sono in grado nemmeno di garantire il numero legale visto che sono 146 mentre la quota è 160 senatori. Dunque servirebbe che una parte del gruppo Pdl-Lega o dei grillini restasse in Aula per garantire il numero legale e per far sì che i "sì" al Governo Bersani prevalgano sui "no" presenti in Aula. Come spiega Stefano Ceccanti, costituzionalista ed ex senatore Pd, «questo è possibile solo in presenza di un accordo o con il centro-destra o con Grillo perché servono una trentina di senatori per avere il numero legale. Senza un patto, ci si troverebbe con un Pdl che esce dall'Aula con la Lega, seguito dai grillini».
In questo quadro vanno messi altri due tasselli. Il primo è il gruppo dei montiani che – a oggi – Bersani non può includere nella sua maggioranza visto che hanno aperto solo alle larghe intese. L'altro tassello che potrebbe pesare è se Bersani proverà il braccio di ferro con Napolitano toccando il tasto della sopravvivenza stessa del Pd.
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