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Questo articolo è stato pubblicato il 09 aprile 2013 alle ore 06:36.

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ROMA.
Continuano a combattere. Nonostante non riescano a spiegarsi la latitanza della politica, così lontana nei dibattiti romani dal quotidiano che vivono le imprese: una competizione internazionale sempre più agguerrita, che le aziende si trovano a fronteggiare con costi talmente alti da ridurre i margini quasi a zero; una domanda interna che non dà segni di risveglio.
"Tempo scaduto", scritto sopra una clessidra dove scendono i granelli tricolori dell'Italia: è il messaggio che Confindustria ha cominciato a lanciare in una pubblicità sui giornali, in vista del convegno della "Piccola" che si terrà a Torino venerdi e sabato. E più in basso: "Non c'è più tempo da perdere per l'Italia". È questo lo stato d'animo che si coglie tra gli imprenditori, che non risparmia nemmeno le aree più industrializzate del Nord.
«Più che un convegno sarà una manifestazione delle imprese, un grido di dolore: non abbiamo più parole per dirlo, mi chiedo come la politica non se ne renda conto». Lo vive tutti i giorni Licia Mattioli, presidente dell'Unione industriali di Torino, quello che rischia di diventare più di un malessere «siamo al coma», dovendo constatare che anche le aziende leader oggi soffrono.
Da Torino al Veneto, dove, come racconta Alberto Baban, presidente dei Piccoli della regione, fa parlare i numeri: 400 aziende del manifatturiero che nel 2012 si sono spostate in Carinzia. Penalizzate dal costo del lavoro, dell'energia, dalle tasse e da quella burocrazia che ormai imbriglia anche se stessa, oltre alle imprese e al Paese.
Fa il paio con quel «rischio desertificazione» che, da Salerno, denuncia Mauro Maccauro, numero uno degli imprenditori locali: «siamo arrivati al paradosso che il prezzo finito di un qualsiasi prodotto di un concorrente estero è uguale al nostro costo della materia prima. Insomma, rischiamo di perdere in partenza».
Ci si rimbocca le maniche, dialogando con le istituzioni locali, con la Regione, aggrappandosi a quell'ottimismo che, ripetono tutti, è nel dna degli imprenditori. Ma con sempre meno speranza e tanta rabbia: «Servono risposte immediate, invece vediamo la politica lontana, non si rendono conto di ciò che vive il Paese. C'è l'angoscia per il posto di lavoro e si avverte soprattutto nelle piccole imprese, dove non c'è il capo del personale ed il contatto tra imprenditore e dipendente è diretto», dice Sandro Cepollina, presidente di Confindustria Liguria.
La sensazione diffusa è che si è tutti sulla stessa barca. Il presidente della Confindustria Emilia Romagna, Maurizio Marchesini, è arrivato a parlare di una mobilitazione comune del lavoro e dell'impresa. «Rispetto a qualche anno fa – continua Cepollina – i lavoratori temono di perdere il lavoro, sono più disponibili quando magari si chiede di lavorare un festivo. Dobbiamo coinvolgere tutti gli stakeholders delle aziende, rimettere al centro il manifatturiero».
È la frase che il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ripete dal giorno della sua elezione, un anno fa, incalzando la politica. «La posizione di Confindustria sul pagamento dei debiti della Pa è stata determinante», sottolinea Maccauro. Il problema, dicono gli imprenditori, è che manca l'interlocutore. Il governo, quindi, e la poltiica, che dovrebbero fare le scelte per dare un futuro al Paese. Confindustria ha preparato a gennaio un documento "crescere si può, si deve": interventi shock e riforme strutturali che nell'arco di 5 anni porterebbero il pil a +3% e creerebbero 1,8 milioni di nuovi posti di lavoro. «È una vera strategia di politica industriale. È stato presentato ai partiti prima del voto, tutti hanno detto ottimo, ma nessuno ha fatto niente», dice la Mattioli, che, nella sua azienda (produce gioielli) ha fatto qualche conto: «Mi converrebbe produrre in Svizzera» e che denuncia un nuovo fenomeno che chiama l'eutanasia delle imprese. «Chiude anche chi ancora regge, perché non vede prospettive future».
Eppure gli imprenditori non vogliono la luna: «Chiediamo un Paese normale, uno Stato efficiente. Penso alle tasse: non vogliamo che scendano per un arricchimento personale, ma è assurdo avere l'Irap che penalizza il lavoro», dice Baban, che rincara la dose: «Ci stanno obbligando a non investire, a non fare il nostro lavoro».
La due giorni di Torino sarà, concordano tutti, un «segnale forte». Perché si può certo dialogare sul territorio, come sta facendo Maccauro, che ha fatto accordi con Equitalia per offrire agli imrpenditori uno sportello ad hoc, con altre istituzioni per trovare forme di agevolazione sul pagamento dei tributi locali.
Ma per affrontare i veri nodi di sviluppo si deve muovere lo Stato centrale, se non l'Europa. Per realizzare quella politica industriale che serve al Paese e che può consentire di crescere.
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