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Questo articolo è stato pubblicato il 16 aprile 2013 alle ore 16:48.

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Lea Garofalo nella ‘ndrangheta c'era nata. L'organizzazione le portò via il padre. Poi anche il fratello. Lei custodiva i segreti dei clan di Petilia Policastro. E da quando ne aveva parlato con i magistrati, viveva sotto protezione insieme a sua figlia Denise. Eppure la sua morte, il 24 novembre del 2009, non fu un delitto di ‘ndrangheta, ma un omicidio d'impeto. Un gesto feroce figlio di un maledetto raptus. Almeno secondo Carlo Cosco, ex compagno di Lea, che oggi ha raccontato la sua versione dei fatti davanti ai giudici della corte d'Appello di Milano.

Cosco, dopo essersi dichiarato sempre innocente, ha invertito rotta. È pronto a prendersi le sue colpe. È lui l'assassino di Lea. Ma non vuole sentir parlare di delitto di ‘ndrangheta. E afferma che i pentiti hanno costruito «castelli di sabbia» intorno a questo omicidio. Non c'era nulla di organizzato, secondo Cosco, nella morte di quella donna di Pagliarelle (piccola frazione di Petilia Policastro, alle porte di Crotone) che gli ha dato anche Denise, loro unica figlia.

La sera di quel maledetto 24 novembre - secondo il racconto dell'uomo - Lea, Carmine Venturino e lo stesso Cosco, si trovarono a casa di un amico. «Volevo fare vedere quella casa a Lea perché poi a Natale volevo fare una sorpresa e portarci mia figlia Denise. Le ho mostrato il bagno e le stanze e, mentre ho detto a Venturino di fare un caffè, non so cosa è successo... Lea mi ha detto delle brutte parole e che non mi avrebbe più fatto vedere Denise e non ci ho visto più... L'ho presa a pugni e buttata per terra con la testa... È successo quello che non doveva succedere, allora ho preso un lenzuolo nell'armadio – ha proseguito Cosco - e ce l'ho messa dentro, con gli stracci ho raccolto il sangue, ho preso i due telefoni di Lea dalla borsa. Venturino era completamente morto, gli ho dovuto buttare dell'acqua addosso perché non si riprendeva... poi gli ho detto di chiamare Rosario Curcio e farsi dare una mano per fare sparire il corpo».

Una versione dei fatti decisamente diversa rispetto a quella fornita da Carmine Venturino, ex fidanzato di Denise che ha deciso di collaborare con la giustizia. Venturino, infatti, ha raccontato particolari relativi a pedinamenti e pianificazioni dell'omicidio. Episodi specifici che non hanno nulla a che vedere con un delitto d'impeto. Venturino ha reso noto anche il metodo brutale col quale fecero sparire il corpo di Lea: bruciarono il cadavere mentre disintegravano le ossa con una pala.

Metodo confermato, oggi, in aula, dall'antropologa e patologa forense Cristina Cattaneo, consulente della Procura nel processo, che ha analizzato i 2.812 frammenti ossei di Lea Garofalo, ritrovati all'interno di un tombino: «C'è l'indicazione certa - ha spiegato l'antropologa - che le ossa sono state frammentate durante le combustione».

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