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Questo articolo è stato pubblicato il 21 aprile 2013 alle ore 18:46.

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Mentre il mondo s'interroga sulla reale minaccia costituita dalle armi atomiche e dai missili a lungo raggio della Corea del Nord, è in corso a Ginevra, fino al 3 maggio, la "PrepCom Tnp", la sessione preparatoria della Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) prevista nel 2015. Si tratta di un appuntamento a cadenza annua che ha lo scopo di verificare i progressi compiuti per limitare la diffusione delle armi nucleari. Senza voler peccare di pessimismo, non è difficile prevedere che i risultati saranno pochi e modesti. Già l'analogo incontro tenutosi lo scorso anno a Vienna si concluse con un "nulla di fatto": le speranze di registrare dei progressi realisticamente slittano alla Conferenza di Revisione, che si terrà tra un biennio alla sede newyorkese dell'Onu. E anche in quella sede non è detto che non si registrino risultati deludenti.

Ma perchè è così difficile realizzare nuovi passi in avanti in materia di non proliferazione nucleare? Perchè, malgrado depistaggi verbali di comodo e infingimenti politici, la volontà di dotarsi di questo tipo di armi resta massima per molti Paesi che ambiscono a diventare potenze politico-strategiche a livello regionale. Mentre in Occidente perde importanza il ruolo delle armi atomiche come fattore cruciale di sicurezza, tanto che si riducono progressivamente gli arsenali (e nel contempo, a causa dei molti e gravi incidenti occorsi a impianti nucleari, si ridimensiona il ruolo dell'energia elettro-nucleare a scopi civili, la quale resta una delle principali fonti di materiale fissile per uso bellico), in Asia e in Medio Oriente è in atto una corsa allo sviluppo del know-how e degli impianti per realizzare armi atomiche, proprio sulla falsariga di quanto ha fatto negli anni scorsi la Corea del Nord. E l'intera filiera del nucleare civile - a parte ovviamente il caso del Giappone - in queste regioni non ha subito contraccolpi dall'incidente di Fukushima, continuando a svilupparsi a gran ritmo.

Tutti inutili, dunque, gli sforzi per limitare la diffusione delle armi atomiche? In realtà, fino ad alcuni anni fa sono stati conseguiti risultati molto significativi . Sul piano geografico, sono state create cinque regioni ufficialmente prive di tali armi (America latina, Africa, Asia centrale e sud-orientale e Pacifico meridionale) e quindi gran parte dell'emisfero Sud del mondo (Medio Oriente escluso) risulta denuclearizzato. Inoltre, i Paesi che dispongono, a qualunque titolo, di materiale fissile (plutonio o uranio "weapon grade", cioè arricchito oltre il 90% per poter produrre un'esplosione nucleare) nell'ultimo decennio sono dimuniti da 40 a 28.

E - fattore di grande rilievo - come si è accennato, gli arsenali di quattro dei Paesi ufficialmente nucleari (Usa, Russia, Francia e Gran Bretagna, oltre alla Cina) sono in costante calo, sia per la crisi economica che ha ridotto i bilanci strategici franco-britannici, sia soprattutto per i drastici tagli operati da Usa e Russia: trent'anni fa, al culmine della Guerra fredda, i due blocchi contrapposti schieravano ben 66mila testate, contro le attuali 17.300 stimate (di cui 10mila in attesa di smantellamento). Gran parte delle armi eliminate è stata riconvertita in uranio a basso arricchimento, contribuendo ad alimentare le centrali nucleari per uso civile. Certo, la capacità di "over-killing" (cioè di distruggere più volte il genere umano se tutte le testate fossero fatte esplodere in un conflitto generalizzato) resta intatta, anche se si è ridotta di varie volte. Ma si tratta comunque di progressi significativi e, soprattutto, indicativi di un trend ormai consolidato: gli Usa sono giunti a formulare la dottrina di non impiego dell'arma atomica contro chi ne è privo, primo passo verso un effettivo disarmo nucleare. Non tutti però la pensano in questo modo.

Gli stessi promotori della non proliferazione, i Paesi ufficialmente nucleari, sembrano in realtà propensi a ridurre gli arsenali solo in cambio del loro ammodernamento: l'ultima dottrina strategica nucleare pare guidata dal principio "armi minori di numero e potenza, ma più efficaci e precise". Gli investimenti previsti per questo obiettivo sono imponenti. Secondo Bruce Blair, analista statunitense, "tutti i possessori di armi nucleari nel prossimo decennio spenderanno almeno mille miliardi di dollari" per migliorarle. Un altro analista, Ray Acheson, che l'anno scorso ha scritto un saggio dall'eloquente titolo "Assuring Destruction Forever: Nuclear Weapon Modernization Around the World", ritiene che "più piccoli, ma ancora potenzialmente devastanti, gli arsenali nucleari siano stati normalizzati e siano parte integrante dell'architettura politica ed economica del sistema globale per come è oggi".

Che gli arsenali non siano destinati a svuotarsi mai del tutto - almeno finchè non sia raggiunto quell'accordo globale su un disarmo completo e universale peraltro espressamente previsto dal Trattato di non proliferazione - appare probabile, anche perchè si sta materializzando il sogno angoscioso paventato mezzo secolo fa dal presidente John Kennedy, quello di un mondo in cui l'arma atomica, sempre più diffusa, possa finire in mani inaffidabili. "Lo scenario attuale - scriveva alcune settimane fa Federica Mogherini su "Affari Internazionali" - rende pericolosissima la presenza anche di un numero ridotto di armi nucleari: gli attori si moltiplicano, non sono più solo soggetti statuali, e le minacce percepite aumentano, in un caleidoscopio che moltiplica all'infinito i rischi, facendo diminuire vertiginosamente la previsione di comportamenti razionali degli attori nucleari o potenzialmente tali". Un mondo da incubo dove i Kim Yong-un si riproducono senza controllo.

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