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Questo articolo è stato pubblicato il 21 aprile 2013 alle ore 08:12.

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«Four - o meglio - seven more years», che è lo slogan tipico dell'esperienza statunitense della rielezione del Presidente, non si è sentito pronunciare. E - si badi bene - non per poco consenso popolare nei confronti del Presidente Napolitano. Anzi. Durante il (primo) settennato il consenso pubblico intorno alla figura del Presidente è sempre stato a livelli altissimi. Non lo si è sentito però perché la rielezione, pur essendo nel pieno rispetto di quanto prevede l'art. 85 della Costituzione che consente implicitamente tutto ciò, appare agli occhi di tutti - in primis a quelli del Presidente - un'eccezione alla regola non scritta di una forma di governo parlamentare che vede - almeno sulla carta e nei poteri - il suo Presidente come garante di un sistema politico-partitico e istituzionale funzionante. E che, nel nostro caso, rappresenta un'eccezione vera pure di fronte al numero dei momenti pubblici, tra discorsi ed esternazioni, nei quali il Presidente Napolitano ha fatto chiaramente intendere la sua volontà di non candidarsi nuovamente.
Eppure, è avvenuta. Anzi, per certi aspetti, è dovuta avvenire la rielezione, proprio in ragione dello stallo politico e in particolare dell'implosione del Pd. Dunque, infrangere quella che lo stesso Presidente ha definito una «consuetudine significativa», è un passo necessario. Quasi obbligatorio.
Momenti straordinari, d'altronde, richiedono risposte straordinarie. Eppure, non si tratta di una violazione delle regole costituzionali, essendo appunto la rielezione compatibile con il nostro testo costituzionale. Quanto piuttosto di un cambiamento nelle regolarità della politica e delle prassi politico-istituzionali che, invece, potrebbero aprire a un mutamento in senso semipresidenziale della nostra forma di governo.
Infatti, la rielezione del Presidente costituisce certamente un precedente derivante più dalla crisi dei partiti che da una volontà politico-partitica di una sua istituzionalizzazione (o da una volontà di Napolitano). Ciò nonostante, la rielezione potrebbe favorire, lungo la maggioranza che ha posto in essere il "metodo Napolitano", riforme costituzionali appunto in senso semipresidenziale, dando veste normativa formale in Costituzione ad una dinamica politica di fatto già presente tra le stesse forze politiche e nel Paese.
Si tratterebbe, quindi, di uno schema alla francese con l'elezione diretta del Capo dello Stato; un modello che, anche di fronte all'opinione pubblica, oggi potrebbe apparire una frontiera meno distante di quanto si pensi, capace di includere e rappresentare quella spinta verso una democrazia immediata - così presente nel nostro Paese, come le elezioni politiche scorse hanno testimoniato - e così stridente invece con quella mediata che si è vista nelle procedure, antiche e barocche, nell'elezione presidenziale fatta da un Parlamento in quella strana composizione che è la seduta comune allargata agli eletti dai - e non dei - Consigli regionali.
Il bis nell'elezione, quindi, potrebbe portare a un doppio scenario: essere l'eccezione che, terminata la crisi politico-partitica, ripristina la regola di un solo settennato presidenziale. Oppure potrebbe essere lo strumento che, nella sua eccezionalità, potrebbe consentire al Presidente - come fece tra IV e V Repubblica, mutatis mutandis ovviamente, Charles De Gaulle - per favorire una modifica costituzionale capace di rafforzare, nei meccanismi di una democrazia rappresentativa, pure i caratteri e gli istituti propri di una democrazia immediata. Riavvicinando governanti e governati. Dentro questa sfida, c'è tutto il travaglio di una scelta, sofferta tanto per la politica quanto per il Presidente. Tuttavia, dopo il rapido insediamento con il giuramento e il discorso a camere unite, misureremo la falcata di queste due prospettive fin dalla formazione del Governo: che non potrà non far immaginare, oltre che le speranze e le attese degli italiani, anche il senso del futuro di riforme che questo (secondo) settennato porta in dono.

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