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Questo articolo è stato pubblicato il 23 aprile 2013 alle ore 06:39.

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È stata la più grande tragedia dell'Europa dopo la Seconda guerra mondiale: con la disgregazione della ex Jugoslavia ci furono dieci anni di guerre balcaniche e 200mila morti. Rimarginare le ferite profonde lasciate da questo bagno di sangue, dalla Bosnia al Kosovo, poteva sembrare un'impresa impossibile. Eppure l'Unione europea, oggi così vituperata per le sue politiche economiche e allora, almeno in Bosnia, assai immobile davanti al massacro, esiste anche per questo. La Commissione di Bruxelles ieri si è pronunciata a favore dell'apertura del negoziato di adesione della Serbia e di quello per l'associazione del Kosovo.
È un passo storico: una parte importante dei Balcani, descritti per un decennio nelle nostre cronache come una scheggia impazzita del continente attraversata da inauditi massacri etnici e religiosi, non sono più "l'altra Europa" ma adesso possono sperare di entrarci, di ritornare così nell'alveo della storia del continente cui appartengono.
Certo non sarà un processo né facile né automatico. La Serbia e il Kosovo hanno appena stipulato un accordo di pacificazione dove peraltro Belgrado continua a non legittimare la statualità del Kosovo, anche se si tratta di un riconoscimento di fatto. La stessa intesa dovrà passare al vaglio dei gesti concreti e soprattutto delle indomabili spinte nazionaliste di questa regione dell'Europa.
Non dimentichiamo che l'accordo tra Pristina e Belgrado riguarda l'autogoverno del Nord del Kosovo, cioè di Mitrovica, ma è stato raggiunto senza la partecipazione dei serbi di questa zona incandescente che hanno invocato il diritto all'autodeterminazione, come del resto ha fatto in precedenza la popolazione del Kosovo nel dichiarare l'indipendenza. Verrà costituita - ed è bene saperlo - un'Unione dei comuni serbi che godrà di un suo statuto ma la cui esistenza sarà garantita dalle leggi del Kosovo, non da quelle della Repubblica di Serbia. Questa Unione, quindi, sarà parte del sistema giuridico del Kosovo e non di quello di Belgrado.
Inoltre il parere espresso ieri dalla Commissione non è una decisione operativa ma una raccomandazione indirizzata ai 27 Stati membri in base ai rapporti recenti su Serbia e Kosovo: sarà il vertice di giugno a decidere i passi successivi, quando verrà stabilita una data per l'apertura concreta dei negoziati con Belgrado e Pristina. L'accordo tra Serbia e Kosovo è comunque «un passo avanti storico, un successo sia di Catherine Ashton sia della diplomazia italiana», ha detto il viceministro degli Esteri, Marta Dassù.
Chi ha vinto? Né la Serbia né il Kosovo. Per ora hanno perso gli ultranazionalisti di Belgrado che dopo la caduta del regime di Slobodan Milosevic avevano subordinato tutti gli obiettivi della Serbia alla lotta per mantenere la sovranità formale sul Kosovo. Hanno prevalso la ragione e gli interessi, aiutati in maniera sostanziale dal "premio" per Belgrado del negoziato di adesione all'Unione europea, una decisione incoraggiata anche dalla consegna del generale Ratko Mladic, il responsabile del massacro di Srebrenica.
Un risultato non da poco se pensiamo al decennio di piombo dei Balcani. Ricordiamo come cominciò la vicenda kosovara. Fu nel 1989, al Campo dei Merli (Kosovo Polje), che Milosevic, in occasione del 500° anniversario della battaglia tra serbi e turchi, pronunciò il famigerato discorso che riaprì tragicamente l'ultima fase dell'iper-nazionalismo slavo. Milosevic considerava il Kosovo un territorio sacro, tolse alla regione la sua autonomia e negli anni 90 ebbero inizio le prime azioni terroristiche dell'Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) che provocarono una durissima repressione da parte delle forze serbe e l'inizio di una sanguinosa guerra civile. Nel 1999, dopo il fallimento di ogni soluzione diplomatica, la Nato decise un intervento militare che durò 78 giorni e tagliò il legame atavico tra Belgrado e il Kosovo, indipendente dal 2008.
La guerra del Kosovo è stata l'ultimo atto dell'apocalisse balcanica, fatta di pulizie etniche, stragi, stupri di massa, che costituirono in un certo senso la fase terminale di un orrore che aveva già riempito i cimiteri nella seconda guerra mondiale. Questi Balcani sanguinanti hanno cominciato a ricostruirsi soltanto ora, dopo una lunga sequenza di eventi drammatici: il fatto che da ieri non siano più "l'altra Europa" è un motivo di ragionevole speranza per tutti. Senza però dimenticare una frase di qualche anno fa dello storico George Prévélakis che suona ancora oggi come un ammonimento: «I Balcani sono un avvertimento mortale per chi crede che il prestigio di uno Stato, la sua potenza e la prosperità restino tali nel corso del tempo. I Balcani sono tutto il contrario del facile ottimismo».
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