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Questo articolo è stato pubblicato il 26 aprile 2013 alle ore 11:53.

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Sono fra 300 e 400 le persone rimaste sotto le macerie dell'edifico crollato mercoledì a Dacca, in Bangladesh, secondo le ultime stime dei soccorritori. Il bilancio provvisorio dei morti è salito intanto a circa 300. Finora sono state tratte in salvo 62 persone, ma si teme che ve ne siano altre 3-400 intrappolate tra le rovine, ha detto un responsabile dei vigili del fuoco, Mizanur Rahman, aggiungendo che «alcune di queste sono ancora vive. Speriamo di riuscire a salvarle», ha concluso. Nel frattempo nelle strade è esplosa la rabbia dei lavoratori del settore tessile che hanno manifestato, chiedendo la pena di morte per i responsabili dell'ennesima strage, e si sono scontrati con le forze di sicurezza.

Intanto tornano ad affiorare le accuse verso i clienti delle società tessili coinvolte nella tragedia. Secondo Abiti Puliti, (sezione italiana della Clean Clothes Campaign) l'edificio crollato ospitava fornitori di grandi marchi europei, anche italiani. Gli attivisti dei diritti umani sono riusciti ad accedere alle macerie del Rana Plaza, dove hanno trovato etichette e documentazione che collega alcuni grandi marchi europei a questa ennesima tragedia: la spagnola Mango, l'inglese Primark e l'italiana Benetton, oltre ad altri marchi italiani. Nei giorni scorsi il nome della società italiana era già affiorato ed era giunta la smentita da parte del gruppo di Ponzano Veneto.

Secondo quanto riporta il Wall Street Journal, l'edificio - di proprietà di un politico locale - sarebbe stato costruito senza le necessarie autorizzazioni. Alcuni giorni prima del crollo lo stabile era stato evacuato per via di una serie di crepe e del crollo di alcuni pezzi d'intonaco, ma in un secondo momento i lavoratori erano stati fatti rientrare nel palazzo.

Il tema della sicurezza dei lavoratori del settore tessile è da anni di attualità in Bangladesh, un Paese dai costi del lavoro bassissimi, dalle norme carenti sotto il profilo della sicurezza e dai controlli quasi inesistenti, dove numerosi brand occidentali si servono per far produrre i "propri" capi d'abbigliamento.

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