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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2013 alle ore 10:05.

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Per i contratti a termine e l'apprendistato la parola d'ordine è semplificare. Il governo punta a cambiare le norme della legge Fornero, almeno per la durata della crisi, nella convinzione che i paletti introdotti abbiano contribuito a frenare le nuove assunzioni.

Il premier Letta nel discorso programmatico ha fatto un esplicito riferimento al documento dei saggi che invita a «riconsiderare le attuali regole restrittive nel lavoro a termine almeno fino al consolidamento delle prospettive di crescita». Per i contratti a termine sono allo studio due ipotesi. Si pensa di agire sugli intervalli obbligatori di tempo tra un rinnovo e l'altro, che la legge 92 del 2012 ha allungato da 10 a 60 giorni (per i contratti con durata fino a 6 mesi) e da 20 a 90 giorni (oltre i 6 mesi), con l'effetto di scoraggiare le aziende a prolungare i contratti. L'obiettivo è quello di ridurre questi periodi di intervallo, lasciando sempre alla contrattazione la possibilità di stabilire pause più brevi.

La seconda misura allo studio riguarda il cosiddetto "causalone", ovvero le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo, o sostituitivo che giustificano il ricorso al contratto a tempo determinato. La legge Fornero ha abolito il ricorso al "causalone" per il primo contratto a termine per una durata fino a 12 mesi, che non è prorogabile. Ma per molti imprenditori rappresenta una difficoltà applicativa l'aver nei fatti stabilito due regimi diversi, visto che per i contratti con durata superiore ai 12 mesi serve la causale. Il governo pensa di rendere più blanda la causale, generalizzando la acausalità, oppure di sostituirla indicando le percentuali di ricorso al contratto tempo determinato, da fissare tenendo conto delle specificità dei singoli settori. Il modello è rappresentato dalle start-up, per le quali è già possibile l'assunzione di una percentuale di lavoratori con contratti a termine, senza indicare la causale.

«Si sta ragionando su come rispondere all'esigenza di una semplificazione – sintetizza Giorgio Santini (Pd) –. Nel rispetto di quanto previsto dalla direttiva europea, va conservato un criterio di selettività per evitare abusi nel ricorso al contratto a termine, al posto del contratto a tempo indeterminato. Si guarda alle esperienze europee che indicano fondamentalmente due criteri, quello delle percentuali o quello delle causali».

Quanto all'apprendistato, nel mirino c'è sempre la legge 92 che prevede la possibilità di assumere apprendisti solo se il datore di lavoro è in regola con le percentuali di stabilizzazione.

L'assunzione di nuovi apprendisti è vincolata alla prosecuzione del rapporto di almeno il 50% degli apprendisti (il 30% nei primi tre anni di applicazione della legge). «L'idea allo studio – aggiunge Santini – è quella di togliere l'obbligo della riconferma, sostituendo il vincolo con gli incentivi».

Il «rafforzamento dell'apprendistato» è uno degli obiettivi indicati dai saggi, considerando che il ricorso a questo istituto rappresenta una quota marginale delle nuove assunzioni (2,8%), e stando alle comunicazioni obbligatorie rese note dal ministero del Lavoro tra il quarto trimestre 2012 e lo stesso periodo del 2011 si è registrato un calo del 3%. C'è è poi un problema di difficoltà di dialogo lamentato dalle imprese con le Regioni che, in base ala riforma del Titolo V, hanno la competenza sulla formazione e possono stabilire standard formativi differenti, con conseguenti incertezze applicative. «Bisogna stimolare le imprese ad assumere, e per questo c'è bisogno di guardare con pragmatismo alla legge Fornero per una rapida revisione», sottolinea l'ex ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi (Pdl), che aggiunge «Sull'apprendistato non ci sono abusi. Ma solo si stipulano pochi contratti perché lo strumento, riformato a fine 2011, è stato appesantito dal punto di vista burocratico dalla legge 92».

Secondo Sacconi «spazi di manovra condivisi» potrebbero essere la «semplificazione della parte relativa alla certificazione e rendicontazione della formazione», magari «spostandola direttamente in azienda». E, più in generale, aggiunge l'ex ministro, si potrebbe «rimettere l'intera gestione dell'apprendistato agli accordi tra le parti, anche all'interno della stessa impresa».

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