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Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2013 alle ore 21:54.

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Nel mondo arabo e musulmano era così popolare che l'industria per la spremitura delle arance a Gaza era stata chiamata "la fabbrica di Andreotti", perché il politico italiano si era molto adoperato per fare avere i finanziamenti all'Olp di Yasser Arafat con cui era da sempre in buoni rapporti. Certo nelle relazioni di Andreotti con il mondo arabo c'erano sempre di mezzo gli affari italiani, gli interessi petroliferi e quelli dell'Eni che allora coincidevano in gran parte con quelli del Paese, sulla scia delle relazioni avviate nel dopoguerra da Mattei.

Anche Gheddafi rientrava tra i suoi protetti perché garantiva all'Italia forniture petrolifere, commesse e un peso politico al nostro ruolo nel Mediterraneo. Fu lo stesso Andreotti a spiegare come il nostro governo negli anni'70 fece fallire un piano, appoggiato dagli inglesi, per abbattere Gheddafi che prevedeva di inviare dall'Italia a Tripoli una nave con emissari libici e mercenari. Si trattava di quello che è passato alla storia come il "piano Hilton". Così raccontò Andreotti davanti a una commissione di indagine parlamentare: «Il colonnello Roberto Jucci si era occupato, se non ricordo male, di una nave in partenza da Trieste carica non di merci quanto di qualche cosa che doveva procurare guai a Gheddafi. L'operazione fu sventata personalmente dal colonnello Jucci».

Il colonnello, poi diventato generale, era un uomo di fiducia di Andeotti che l'anno seguente, nel 1972, sarebbe diventato presidente del Consiglio.
In quella frase, «se non ricordo male», c'era tutto Andreotti, il quale ricordava ogni nome, particolare e dettaglio in maniera stupefacente. E anche Andreotti rimaneva impresso nella memoria dei suoi interlocutori mediorientali. Mohammed Larijani, ex viceministro degli Esteri e fratello dell'attuale presidente del Parlamento, qualche anno fa in un libro di memorie dedicò otto pagine a un ritratto di Andreotti. In Iran è sempre stato tenuto in grande considerazione al punto che anche quando non ebbe più cariche di governo venne ricevuto negli anni '90 dall'allora presidente Rafsanjani con gli onori di un capo di stato. Rafsanjani lo accolse all'aereoporto sul tappeto rosso con gli inni nazionali e lo abbracciò: in fondo il leader iraniano, per la sua consumata abilità manovriera, gli somigliava.

Sembra che Andreotti tra le sue carte conservasse delle foto che lo ritraevano con la kefiah in testa. Con gli arabi fu certamente protagonista di gesti clamorosi. Nel 1982 invitò il presidente dell'Olp Arafat a parlare alla camera dei deputati a Roma, nell'85, da ministro degli Esteri impedì - insieme a Bettino Craxi allora premier - che i soldati americani catturassero, nella base siciliana di Sigonella, i sequestratori palestinesi della nave "Achille Lauro". Andreotti si era rivolto ad Arafat per liberare la nave da crociera. Il leader dell'Olp inviò come mediatore Abu Abbas che in cambio della liberazione ottenne un salvacondotto per il commando dei rapitori, colpevoli di avere ucciso anche un cittadino americano paraplegico. Episodi come questi non lo fecero amare dagli Stati Uniti e da Israele che non apprezzavano la sua politica estera.

Lui tentò di spiegare le priorità della politica italiana agli alleati con una frase secca, una battuta come tante che aveva coniato nel corso di una carriera lunghissima: «I vicini non si scelgono». Era questa la preoccupazione che lo spingeva a parlare con tutti e a comprenderne le ragioni che fossero arabi, israeliani o iraniani. E naturalmente nei suoi incontri annotava tutto con la sua memoria formidabile. Me ne diede una prova personale quando il 17 gennaio 1991 incappai in una sanguinosa disavventura nel primo giorno dei bombardamenti americani sull'Iraq. Mi chiamò all'albergo di Amman per sapere quali fossero le mie condizioni. Non pensavo che mai si potesse ricordare di un anonimo e allora ancor giovane giornalista. Fu l'unica telefonata che ricevetti quel giorno dall'Italia.

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