Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 06 maggio 2013 alle ore 16:18.

My24

Il primo incarico di Giulio Andreotti fu come sottogretario del governo De Gasperi. Aveva 30 anni, era il 1951 non c'era la tv ma il grande cinema neorealista italiano. Il giovane futiro «Divo» vigilava sul cinema italiano, allora ritenuto un potente mezzo di formazione delle coscienze dei cittadini. Tra il luglio del 1951 e il luglio del 1953, Giulio Andreotti, nel settimo e ottavo governo De Gasperi, aveva il delicato compito di occuparsi di tutto il settore dello spettacolo.

L'allora sottosegretario, per dirne una, aveva obbligato le produzioni americane a versare nelle casse dello Stato italiano una percentuale degli utili del botteghino. La tassa su Hollywood serviva per finanziare il cinema tricolore, e qui cominciavano i guai. Per accedere ai contributi, bisognava passare attraverso il giudizio di commissioni e burocrati di nomina governativa: e così succedeva che la saga di Peppone e Don Camillo ricevesse dieci volte di più di un film di Vittorio De Sica. Il fatto è che, al giovane sottosegretario, il neorealismo proprio non piaceva, perchè insisteva troppo sugli aspetti tragici dell'Italia del dopoguerra. Secondo la vulgata, Andreotti avrebbe espresso il suo astio nei confronti dei neorealisti con la celebre battuta (sempre smentita) «i panni sporchi si lavano in famiglia». Se l'autenticità della frase è dubbia, viene però dalla penna di Andreotti un articolo per "Il Popolo" contro "Umberto D.", un film di Vittorio De Sica che racconta la storia di un pensionato ridotto alla miseria: «Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. è l'Italia della metà del XX secolo - scriveva Andreotti - De Sica avrà reso un pessimo servigio alla patria, che è la patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione».

Il film di De Sica, come ha denunciato recentemente il figlio Manuel, ancora oggi non può essere trasmesso in tv in prima serata, perché fu bollato dalla commissione censura (della quale Andreotti faceva parte) come "disfattista". Dietro la posizione di Andreotti c'era l'insofferenza del Vaticano per la lontananza della cinematografia italiana dai valori della tradizione cattolica. «La verità - scrisse Andreotti a monsignor Montini, il futuro Paolo VI - è che la gran parte dei registi, dei produttori e dei soggettisti non proviene dalle nostre file né condivide con noi le essenziali convinzioni religiose». Lo stesso Andreotti, nei suoi diari, racconta che papa Pio XII gli telefonava per protestare contro questa o quella scena scabrosa vista in un film. Una volta Papa Pacelli lo chiamò perchè in una copertina della Settimana Incom Illustrata si vedeva un'attrice che, scendendo dalla macchina, mostrava le gambe un pò sopra le ginocchia. Il Vaticano non transigeva, e Andreotti non risparmiava energie per raddrizzare le storture. Largamente sua era la normativa contro l'oscenità e "tutto ciò che può turbare l'adolescenza" (ma anche un certo numero di esponenti della sinistra, tra i quali
Pietro Ingrao, votarono a favore). Anni dopo, quando la sua stella era all'apogeo, Andreotti accettò di interpretare sè stesso nel film di Alberto Sordi "Il tassinaro".

A bordo del taxi di Sordi, tra le strade di una Roma dei primi anni '80,
Andreotti chiacchierava con il conducente di calcio e politica, probabilmente convinto che la Dc avrebbe governato l'Italia per altri 50 anni. Passati altri 20 e più anni, con l'assoluzione al processo per mafia alle spalle, Andreotti si è ritrovato protagonista di un film che lo presentava come il simbolo del "lato oscuro" della politica italiana. Di fronte a "Il Divo" di Paolo Sorrentino, il flemmatico Andreotti è sbottato: «È cattivo, è maligno, è una mascalzonata», disse il giorno della prima. Poi però tornò a essere andreottiano: «Ho esagerato, le mascalzonate sono ben altre. Questa la cancello».

Andreotti aveva una passione per lo sport al quale lo ha legato un rapporto lungo e intenso. Lungo come la sua esistenza, a dispetto di quello che gli aveva predetto un medico militare (morto, lui sì, prematuramente, notò con scaramantico humour tanti anni fa il 'divo Giuliò). Intenso come l'amore per la sua Roma, incrollabile nella buona e nella cattiva sorte. Per oltre 60 anni, politica e sport si sono intrecciati strettamente nella carriera di Andreotti. Appassionato soprattutto di calcio (praticato da ragazzo, "ma ero una schiappa") e ippica, interessato a tutte le discipline sportive, il senatore non ha mai fatto mistero della sua fede giallorossa. Più in generale, ha guardato sempre a tutto lo sport con competenza ed ironia

Giallorosso dall'età di otto anni ("e solo perchè fino a quel momento la Roma non c'era ancora", diceva), Andreotti non ce l'ha fatta a veder realizzato il desiderio espresso nel giugno 2001, quando i giallorossi vinsero il campionato: "Adesso spero solo che per il quarto scudetto non ci siano da aspettare tanti anni, perchè non ho tantissimo tempo...". Romanista: quindi anti-juventino, pur riconoscendo ai bianconeri una sorta di "valore comune" nazionale. "La Juventus era meglio in serie C. Ma anche in B, per un vecchio tifoso come me, è un pò come la Rivoluzione francese", commentò, nel luglio 2006, la sentenza d'appello su Calciopoli. E all'avvocato Agnelli, che lo provocava sostenendo che la Roma conquistò lo scudetto 'di guerrà del 1942 grazie al Duce, fece notare che la vittoria arrivò soltanto alla fine del Ventennio. Romanista che riconosceva ai laziali "solo i diritti umani". Ma prevaleva l'anti-juventinismo. "Una volta tanto in vita mia sono contento che la Lazio abbia vinto una partita", disse nel marzo 2001, e, guarda caso, la squadra sconfitta era la Juve. Romanista che una sola volta "si è impicciato" nelle vicende della società, adoperandosi, nel 1983, perchè, dopo il secondo scudetto giallorosso "l' ottavo re di Roma" non andasse all'Inter: "Ebbi solo un ruolo nel reingaggio di Falcao: quando chiamai la madre del giocatore e potei dirle, senza mentire, che anche il Papa aspettava suo figlio. In realtà, ricevendo la Roma, il Papa aveva domandato: 'Ma Falcao rimane?'. Quindi non era del tutto una bugia, e la signora era stata contenta".

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi