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Questo articolo è stato pubblicato il 07 maggio 2013 alle ore 06:41.

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La Cina ha deciso di entrare politicamente in Medio Oriente ospitando in questi giorni per la prima volta a Pechino un vertice tra israeliani e palestinesi. L'iniziativa non è certo allo scopo di creare una competizione o scalzare gli Stati uniti, rimasti dopo la guerra fredda l'unica superpotenza dell'area. È esattamente il contrario, nasce dal minore interessamento dell'America verso la regione e il ri-orientamento della sua politica estera ed economica lontana dal Mediterraneo e invece protesa sul Pacifico con l'ormai celebre "pivot to Asia".
La scoperta di tecnologie in grado di sfruttare lo shale gas sta riducendo la dipendenza Usa dalle importazioni di energia mediorientale e promette entro la fine del decennio di trasformare l'America in un Paese esportatore di energia. Il Medio Oriente diventa quindi un problema geostrategico generale, legato al rapporto speciale che unisce gli Usa a Israele, alla sicurezza della regione, ma smette di essere una questione da cui dipendono le forniture strategiche.
Allo stesso tempo la Cina è già diventato il singolo maggiore importatore di energia dal Medio oriente e questa dipendenza andrà a crescere nei prossimi anni, con lo sviluppo dell'economia del Paese. Pechino, pur ricca in teoria di shale gas, è molto indietro sia nello sviluppo della tecnologia per l'estrazione sia nello sviluppo delle aree da sfruttare. Non c'è un orizzonte temporale in cui pensare che la Cina diventi indipendente dalle importazioni di petrolio dall'estero. Piuttosto c'è il contrario. La dipendenza cinese dalle importazioni d'oltremare crescerà nei prossimi anni, e passerà poi per rotte controllate dalla marina militare americana. Tutto questo costringe quindi oggi la Cina a interessarsi di una zona da cui invece vorrebbe stare alla larga e che ha attentamente evitato per molti anni.
Qui gli interessi cinesi sono in realtà doppi. In principal modo, sulla carta, Pechino vuole mantenere buone relazioni con tutti i Paesi della regione, quelli arabi in particolare. Con la Turchia c'è una antica frizione per l'appoggio di Ankara alla causa indipendentista degli uiguri della regione occidentale cinese del Xinjiang. Con l'Iran invece i rapporti una volta caldi, si stanno man mano intiepidendo. Ciò per venire incontro alle pressioni americane ma anche per tenere presente la crescita dei rapporti con l'Arabia Saudita, rivale regionale dell'Iran. Infine, proprio intorno a Teheran si muovono trame delicate che portano anche in Israele.
Questo è il rapporto forte che sta decollando nella regione. Per esempio, a metà mese il governo Netanyahu firmerà la costituzione di un fondo di investimenti comune sino-israeliano sulle tecnologie verdi da impiegare in Cina per il risparmio energetico. Questo è un contenuto molto sostanziale rispetto ai colloqui tra lo stesso Netanyahu e il leader palestinese Abu Mazen.
Su questo aveva cominciato a lavorare oltre un anno fa il miliardario e filantropo palestinese Munib Masri, arrivato allora a Pechino per una serie di incontri riservati. La teoria dei palestinesi, in particolar modo quelli filo americani come Masri, nel cercare un coinvolgimento cinese è che Pechino rappresenta un approccio fresco, nuovo che potrebbe dare risultati inattesi. I cinesi sono molto incerti, e spesso si confessano impreparati a questo ruolo di mediatori che non hanno mai avuto. Ma l'occasione non permette esitazioni.
Da questi colloqui, infatti, Pechino spera di ottenere almeno conoscenze e relazioni in più in un'area che è sempre più importante per i suoi interessi nazionali ma che anche un'area in rapido sgretolamento. La Libia si è polverizzata nelle lotte fra fazioni tribali. La Siria è un cancro che si sta allargando ovunque. L'Iraq è ben lungi dall'essere un paese normale, mentre la più grande polveriera della regione, l'Egitto, traballa. Ciò minaccia direttamente tutta l'area, e le sempre più delicate importazioni di petrolio cinese.
Il rischio, ben chiaro a Pechino, è di trovarsi impiccati in questa ragnatela di problemi irrisolti e forse insolubili. Qui, di fatto, sta maturando una conversione profonda cinese. Se tutto frana in Medio oriente, bisogna puntare sull'ancora di stabilità Israele, che non ha petrolio da vendere, ma di meglio: tecnologie che diminuiscono la dipendenza cinese dal petrolio.
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