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Questo articolo è stato pubblicato il 08 maggio 2013 alle ore 19:41.

Vola l'export cinese, vola tanto alto da sfidare, se non proprio le leggi di gravità, almeno quelle della statistica e da suscitare serie perplessità sull'attendibilità dei dati di un Paese che, quando si tratta di dare i numeri, non ha una reputazione immacolata.

Secondo l'Amministrazione generale delle dogane, l'export cinese ad aprile è cresciuto del 14,7% su base annua, malgrado le vendite negli Stati Uniti (-0,1%) e in Europa (-6,4%) abbiano segnato il passo. Il surplus commerciale si attesta quindi a 18,2 miliardi di dollari, dopo il deficit di 880 milioni di marzo. Il balzo sarebbe spiegato dal vero e proprio boom delle esportazioni verso Hong Kong, cresciute del 57%, dopo il 93% messo a segno a marzo.

Lo stesso mese però, Hong Kong ha dichiarato un aumento dell'import dalla Cina di appena il 13,8 per cento. I risultati dell'export cinese stridono poi troppo con quelli di altre economie dell'area, come la Corea del Sud (+0,4%) e Taiwan (-1,9%). Quest'ultima ha a sua volta dichiarato un calo delle importazioni dalla Cina del 2,7%, mentre dai dati di Pechino emerge un incremento del 49%.

Discrepanze troppo ampie per poterle imputare alle diverse metodologie statistiche usate dai vari Paesi. Il sospetto, forte, è invece che siano la prova di transazioni commerciali false, con i prezzi delle merci esportate gonfiati per aggirare le restrizioni sui movimenti dei capitali e mettere in cassa più valuta estera possibile da convertire in yuan, contando sul suo continuo apprezzamento.

Royal Bank of Scotland ha provato a misurare di quanto il dato sulle esportazioni sia drogato da queste operazioni e in un report scrive che l'aumento reale di aprile sarebbe solo del 5,7%, nove punti in meno rispetto alle cifre ufficiali.

I sospetti degli analisti sono condivisi dalle stesse autorità cinesi, che già il mese scorso hanno annunciato indagini per far luce sullo «straordinario» incremento degli scambi con Hong Kong. Monito ribadito questa settimana, con la minaccia di usare il pugno di ferro contro le aziende che manipolano i fatturati esteri per mascherare l'importazione di capitali poi riversati in speculazioni finanziarie. Con l'effetto finale di mettere altra benzina nel motore dello yuan e di creare grossi grattacapo alle autorità monetarie di Pechino, già alle prese con il compito arduo di arginare l'ondata di liquidità generata dalle manovre espansive del Giappone e degli Stati Uniti.

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