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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2013 alle ore 06:41.

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di Alberto Negri È difficile per la diplomazia internazionale essere onesti sulla crisi siriana. Ma almeno è confortante che il ministro degli Esteri Emma Bonino abbia annunciato, nel corso della visita del segretario di Stato Usa John Kerry a Roma, che l'Italia aumenterà l'aiuto ai profughi in Libano e Giordania. Entro la fine dell'anno, se le cose non cambieranno, il numero dei rifugiati siriani all'estero raddoppierà dall'attuale milione e mezzo a tre milioni. In Libano sono 500mila, 460mila in Giordania: è come se l'Italia ospitasse dai sei agli otto milioni di profughi. Insieme ai 70-90mila morti negli ultimi due anni, queste cifre danno le dimensioni quantitative della tragedia siriana: a questo bisogna aggiungere la distruzione del tessuto civile e sociale di un Paese un tempo multireligioso e pluri-confessionale.
Questa Siria, dove sunniti, cristiani, alauiti, sciiti, drusi e altre minoranze vivevano fianco a fianco, non esiste più: si è sgretolata insieme ai minareti delle moschee, ai campanili delle chiese, all'eredità di culture millenarie. Stiamo già parlando della "ex Siria", come un tempo si parlava di ex Jugoslavia: le acrobazie diplomatiche appaiono pericolose illusioni. La stessa promessa strappata da Kerry a Mosca di convocare una conferenza di pace non è troppo consistente: la proposta è stata accolta così positivamente dal regime di Damasco da apparire quanto mai sospetta di essere un'altra perdita di tempo. Ma la speranza si sa è l'ultima a morire, prima periscono intere popolazioni.
Perché essere onesti sulla Siria è difficile? La Russia fornisce al regime il 78% delle armi e in un anno ha stampato 200 tonnellate di banconote per rimpinguarne le casse. L'altro alleato di Damasco, l'Iran, ha aperto una linea di credito di un miliardo di dollari mentre le brigate Al Qods dei Pasdaran insieme agli Hezbollah libanesi combattono con l'esercito di Bashar Assad. Anzi hanno fatto di meglio: hanno irrobustito le milizie dei famigerati Shabiha: sono 50mila uomini che resteranno sul campo a combattere anche se crollasse Assad.
Il fronte di ribelli, dall'inizio del 2012, ha ricevuto 3.500 tonnellate di armi, secondo una stima per difetto del Peace Institute di Stoccolma, con voli diretti dal Qatar, dall'Arabia Saudita e dalla Giordania. Hanno contribuito anche Paesi europei alleati degli Usa, come Gran Bretagna e Francia e immaginiamo anche la Turchia, il cui maggiore think tank, Edam, ha appena pubblicato un rapporto assai dettagliato sulla guerra. C'è concorrenza nell'aiutare la guerriglia. Nel novembre scorso il Qatar ha pagato un comandante militare per andare alla conferenza di Doha, i sauditi hanno pagato ancora di più perché non si presentasse. Il Fronte islamico Jabat al-Nusra, affiliato di Al-Qaeda in Iraq, è diventato il gruppo combattente egemone e che fa il maggior numero di reclute. Siamo sicuri di voler sostenere un emirato nel cuore del Levante? È complicato essere onesti con la Siria, se non pronunciando un addio doloroso e colpevole a questo grande Paese.
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