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Questo articolo è stato pubblicato il 28 maggio 2013 alle ore 06:40.

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È dal mese di ottobre del 2011 che la siderurgia europea non conosce una variazione positiva della produzione. E l'Italia, in questo pessimo quadro congiunturale, è la maglia nera, con un peso specifico che si è ridotto al 14,8 per cento. Nei primi tre mesi dell'anno la frenata dell'output siderurgico continentale è stata del 5,3%, a quota 41,5 milioni di tonnellate. La contrazione ha interessato tutti i principali produttori, ma l'Italia, con una produzione di 6,2 milioni, ha messo a segno la riduzione più marcata (-17,2%) sia a livello europeo che mondiale.
Intanto, però, aumentano le importazioni sul mercato interno, trainate dai Paesi extra Ue (619mila tonnellate, +46,5%), in particolare da Russia (+88,9%), Corea del Sud (+114), Cina (+16,3).
In uno scenario in forte mutazione, Ilva resta però il perno della produzione italiana, con una capacità produttiva di circa 10 milioni di tonnellate annue, pari al 40% della produzione nazionale di acciaio. Gli 8 milioni di tonnellate prodotti nel 2011 sono stati indirizzati per la maggior parte sul mercato interno (5 milioni), mentre altri 3 milioni hanno soddisfatto la domanda estera (2,5 milioni di tonnellate nell'Ue, 500mila tonnellate sui mercati extra Ue).
Perdere un patrimonio come Ilva può avere conseguenze pesanti sul manifatturiero italiano. Per questo motivo il futuro dello stabilimento pugliese è un tema sensibile, anche per i «piccoli» imprenditori siderurgici del nord Italia. «Non si doveva arrivare a questo punto – spiega Franco Polotti, di Ori Martin, azienda siderurgica bresciana specializzata nella produzione di acciai di qualità per il mercato automotive –. La vicenda andava gestita in un altro modo. Quello di Taranto non è uno stabilimento che può essere fermato». Per il futuro dello stabilimento, Polotti si dice concorde con l'opinione del ministro dello Sviluppo Flavio Zanonato. «Ilva – spiega – deve restare italiana, è una produzione che deve rimanere sul territorio».
Nell'eventualità di una cessione degli impianti, però, è difficile individuare operatori nazionali in grado di caricarsi sulle spalle una simile impresa. «Non c'è nessuno in questo momento così patrimonializzato e strutturato per poter rilevare un'attività del genere – spiega Emanuele Morandi, leader dell'azienda di trasformazione Morandi spa e fondatore di Siderweb, la community on line di riferimento dell'industria siderurgica nazionale –. Al massimo si può pensare a un operatore russo, brasiliano o indiano. Una cordata italiana è improbabile».
La situazione è difficile per tutto il mercato della siderurgia, le risorse sono limitate, la maggior parte delle aziende sono concentrate a risolvere i problemi interni. «Non siamo riusciti a mantenere in mani italiane il gruppo Leali, qui in Valle Sabbia – spiega un imprenditore del settore, ieri a margine dell'assemblea dell'Aib a Brescia –, si figuri se è possibile allestire una cordata per Ilva». In questo momento le risorse sono limitate. Sono alla ricerca di un compratore anche il gruppo Lucchini (poche, secondo gli osservatori, gli interessamenti concreti, a parte l'onnipresente svizzera Klesch, la stessa che ha rilevato Leali) e Acciaierie Speciali Terni. In questo ultimo caso sono scesi in campo i due operatori nazionali Marcegaglia e Arvedi, ma solo con un ruolo di pivot, affiancati da un colosso del settore come Aperam. Comprensibile, quindi, in questo quadro, lo scetticismo di Giuseppe Pasini, leader del gruppo Feralpi, sulla possibilità di una cordata per Ilva. «Non ne vedo il motivo – taglia corto l'ex presidente di Federacciai –. Ilva è in buone mani, è della famiglia Riva, e non vedo nessuno in questo momento che possa gestirla meglio».
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