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Questo articolo è stato pubblicato il 06 giugno 2013 alle ore 07:11.

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Il confronto Italia-Germania aiuta sempre a capire qualcosa in più delle nostre difficoltà. Così tra i dati del Centro studi Confindustria quello che colpisce di più è la perdita per l'Italia del 15% del potenziale produttivo negli anni della crisi contro il guadagno del 2,2% della Germania. È la differenza tra chi nel decennio pre-crisi ha fatto le riforme e chi no. E su questo poco c'entra l'euro o le politiche di austerity. Sono le responsabilità, gravi e tutte indigene, di una politica che ha sprecato il dividendo dei tassi bassi frutto dell'ingresso nella moneta unica.

Dall'inizio della crisi la maggior parte dei settori industriali ha visto una diminuzione del potenziale produttivo pari o superiori a un quinto, con punte oltre il 40 per cento, come nel settore automobilistico. La doppia recessione, colpendo prima l'export e poi i consumi interni, mette a repentaglio la sopravvivenza di migliaia di imprese e di interi comparti. Oltre 32mila sono le imprese industriali che hanno chiuso, 539mila i posti di lavoro andati in fumo.
Non è un destino ineluttabile. Torniamo in Germania: anche lì il Pil dà segnali di affaticamento, ma l'ultimo dato disponibile sulla produzione industriale, quello riferito a marzo, ha visto una crescita sopra alle attese, con un incremento dell'1,2% rispetto al precedente mese di febbraio. Trainato da Berlino, l'Europa resta un polo produttivo fortemente integrato. E l'Italia, come sottolineato ieri dall'analisi di Luca Paolazzi, è ancora il secondo Paese manifatturiero d'Europa, il settimo al mondo, dispone di una base produttiva settorialmente diversificata, è capace di una forte mobilità tra i mercati internazionali.

Bisognerebbe amarla questa industria, con i suoi lavoratori e la sua capacità di creare valore aggiunto. Difenderla e promuoverla, non ex post, con interventi assistenziali quando ormai le crisi esplodono, ma con interventi ex ante che possano favorire l'innovazione e l'internazionalizzazione.
S ono temi che in questo Parlamento, intriso di una malintesa cultura dell'ambientalismo e in alcuni casi di una vera e propria diffidenza per la crescita industriale, rischiano di essere incompresi. Anche il decreto sull'Ilva, in questo contesto, nel suo estendersi oltre il caso specifico, potrebbe aprire un varco dove alle Camere può infilarsi il peggio di una cultura di ritorno statalista e anti-industriale.
Occorre vigilare. La sensibilità di Enrico Letta in questo senso è una garanzia. Ma è ora che si veda la sua impronta su una politica economica finora ostaggio del contingente, nell'esigenza di rispondere in modo diretto e occasionale alle esigenze diverse delle diverse componenti della maggioranza. Tanto tempo è stato utilizzato nel bilanciamento sui provvedimenti tampone dell'Imu e della Cig, ora si rischia una discussione mortificante sull'aumento dell'Iva.

Andrebbero invece alzati la testa e lo sguardo. Mettendo in campo, o almeno prospettando, una più ampia strategia per la produzione e il lavoro. Dal fisco (cosa si aspetta a ragionare su un credito d'imposta per gli investimenti in innovazione e ricerca?) al credito, all'abbattimento degli intralci burocratici.
Il Governatore Visco ha fatto bene a sottolineare come negli ultimi 25 anni l'Italia non sia riuscita a salire sul grande treno dei cambiamenti portati dalla globalizzazione. Un ritardo frutto anche di mancati investimenti industriali. Ma si investe se c'è una convenienza a farlo. Nel Paese delle riforme mancate, invece, investire finisce per essere un azzardo, piuttosto che non la vocazione essenziale di un imprenditore.