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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2013 alle ore 06:38.

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ROMA
L'allungamento della speranza di vita degli italiani continuerà a far calare gli importi delle pensioni future. Una nuova quantificazione del fenomeno arriva da una stima della variazione dei coefficienti di trasformazione, ovvero il moltiplicatore con cui, nel sistema di calcolo contributivo, si trasforma il montante dei versamenti effettuati negli anni di lavoro in pensione. Dal 1996, anno di entrata in vigore della riforma Dini, questi coefficienti, calcolati con riferimento all'età di 65 anni, si sono ridotti dell'11,4%, passando dal valore del 6,136% al 5,435%. E il calo proseguirà nelle decadi a venire, fino a scendere al 4,53% nel 2065 (-26,7% dal loro debutto). La proiezione arriva da una delle relazioni presentate ieri alla seconda giornata del Congresso nazionale degli Attuari a Roma, e reca la firma di Antonietta Mundo, responsabile del Coordinamento statistico dell'Inps.
Per il principio dell'equivalenza attuariale un allungamento della vita impone necessariamente una distribuzione su più anni del "tesoretto pensionistico" che ogni lavoratore ha cumulato e, quindi, una diminuzione degli importi delle pensioni. Ma il calcolo dei coefficienti elevato fino a 70 anni, come prevede l'ultima riforma permette, per chi potrà, un piccolo riscatto: qualche anno di lavoro in più farà infatti recuperare peso all'assegno. Dai dati forniti ieri non è arrivata alcuna indicazione, invece, sull'altro fattore base per il calcolo delle pensioni future, vale a dire la valorizzazione del montante contributivo, che com'è noto è legato alla variazione media mobile quinquennale del Pil. Ma basta pensare ai vent'anni di stagnazione che hanno preceduto la caduta della nostra economia nella recessione iniziata nel 2008 per togliersi la speranza: le pensioni di domani vinceranno la sfida dell'adeguatezza solo se il Pil tornerà a crescere stabilmente.
Dalla relazione Inps sono emerse una serie di altre evidenze significative sull'impatto della riforma Fornero e gli effetti delle graduali, profonde trasformazioni introdotte nel nostro sistema di previdenza obbligatoria, considerato oggi tra i migliori d'Europa. La tecnostruttura che detiene il modello previsionale di cui si sono avvalsi i ministri del Lavoro che hanno disegnato le riforme degli ultimi anni conferma innanzitutto il valore in termini di minore spesa determinati dalle regole varate a fine 2011: oltre 80 miliardi nel solo decennio 2012-2021 tenendo conto anche dei costi sostenuti per la salvaguardia di oltre 130mila lavoratori esodati. Seconde le stime effettuate sulle quattro principali gestioni, la spesa subisce una notevole contrazione che, nel 2019, va oltre un punto percentuale del Pil, e ulteriori risparmi seguiranno fino al 2045.
Si apprende poi che guardando alle pensioni in pagamento il passaggio al nuovo regime contributivo resta piuttosto lento: nel 2025 ancora il 65,8% delle pensioni saranno retributive, contro un 30% di regime misto e un 4% di contributivo puro, mentre solo nel 2050 le pensioni in pagamento saranno per il 40% calcolate con il metodo contributivo, a fronte di un 50,7% ancora in pagamento con il sistema misto. Un dato significativo in vista del dibattito evocato nelle ultime settimane sulla possibilità di un trasferimento di solidarietà, anche piccolo, a carico di trattamenti superiori comunque a quelli futuri, per finanziare ipotesi di maggiore flessibilità sui requisiti di pensionamento o di rafforzamento degli ammortizzatori sociali.
Altro dato interessante è quello sulle percentuali di donne in pensione con meno di 25 anni di contributi: è il 56,5% del totale, contro l'11,6% degli uomini. Ciò spiega perché le pensioni femminili sono più basse: le donne continuano ad andare in pensione il prima possibile per sostenere i carichi familiari. E le pensionate, pur essendo il 53% del totale, incassano il 44% dei redditi da pensione complessivi, con più di 5 milioni di donne che hanno un assegno inferiore ai mille euro contro i 2,9 milioni di uomini. Numeri su cui riflettere nella prospettiva del previsto allineamento, tra cinque anni appena, dei requisiti di pensionamento tra i due sessi: senza un allineamento dei rispettivi tassi di occupazione sarà difficile che il sistema regga, né è pensabile puntare su trattamenti diversificati, che l'Ue ha già bocciato nel pubblico impiego perché li ha giudicati discriminatori.
Infine una constatazione sulle pensioni più elevate. Il sistema di rivalutazione sulla base del tasso di inflazione (applicata al 100% per le fasce di importo fino a 3 volte il trattamento minimo del fondo pensioni lavoratori dipendenti, al 90% per le fasce di importo comprese tra 3 volte e 5 volte il trattamento minimo e al 75% per le fasce di importo oltre 5 volte trattamento minimo) ha prodotto secondo i calcoli Inps una perdita del 18%, tra il 1995 e il 2012, per le pensioni superiori a otto volte il minimo (3.963 euro mensili quest'anno), mentre gli assegni fino a tre volte il minimo (1.486 euro) sono stati protetti dal carovita.
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LA STAFFETTA TRA I DUE SISTEMI IN USO
LENTO ADDIO DEL RETRIBUTIVO
Secondo le valutazioni dell'Inps solo nel 2050 i trattamenti in regime retributivo (basato sugli ultimi stipendi dell'assistito) saranno inferiori a quelli di tipo contributivo (fondato sui contributi versati). In quel momento, però, la maggioranza sarà in regime «misto»

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