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Questo articolo è stato pubblicato il 08 giugno 2013 alle ore 08:17.

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Un doppio smacco per le piccole e medie imprese assetate come non mai dal fabbisogno di credito. Quel doppio smacco sta tutto nella strutturale ed eccessiva dipendenza dal credito bancario da parte delle imprese. Se la stretta è sempre più forte e corre a tassi più alti dell'Europa del Nord, quella morsa è aggravata dal fatto che le imprese italiane dipendono dal fabbisogno bancario per una cifra doppia rispetto ai concorrenti al di là delle Alpi.
Le cifre snocciolate da Banca d'Italia sono esemplificative. Il credito bancario vale, in Italia, oltre due terzi dei debiti finanziari delle aziende, contro un terzo in Francia e nei Paesi anglosassoni e la metà in Germania. Tanta banca e pochi bond nei conti delle imprese: i prestiti obbligazionari sono solo l'8% del totale dei debiti finanziari. Vista così l'anomalia italiana e cioè l'eccessiva dipendenza dal circuito bancario e lo scarso sviluppo della finanza d'impresa non può che acuire gli effetti del credit crunch bancario.
Il dato purtroppo è strutturale e questo divario con il resto dell'Europa costituisce un fardello aggiuntivo. Ma è la domanda che manca o è invece l'offerta che non c'è? Quesito peregrino, dato che si tratta di un circolo vizioso.
«C'è un problema strutturale di dimensioni, spiega Paola Maiorana partner di Kpmg advisory, le nostre Pmi sono tendenzialmente più frammentate; più parcellizzate e gli investitori istituzionali tendono a starne lontani; la sfida è far crescere le aggregazioni per attrarre fondi pensioni; fondi comuni; Sgr e rendere appetibili le emissioni. Occorrono incentivi fiscali e misure ad hoc». Gli stessi mini-bond sono partiti al rallentatore. Ricorda Maiorana che l'obiettivo era di 10-12 miliardi nel primo anno, invece la raccolta è stata di soli 1,7 miliardi per 4 emissioni. E guarda caso ad accedere ai mini-bond sono stati marchi conosciuti. Da Cerved; a Guala, a Rottapharm. «Il brand è un fattore chiave per riuscire ad andare sul mercato». Già proprio il mercato, che di fatto non c'è. Non perchè manchi liquidità. Quella è ovunque ed è disposta anche ad investire su bond ad alto rendimento come sarebbero i titoli della gran parte delle Pmi. Dice un operatore di lungo corso: «Il tema sono davvero le dimensioni. Un investitore istituzionali lavora su taglie di almeno 100-150 milioni di emissioni. Non guarda taglie più piccole, deve garantirsi liquidità e scambiabilità dei titoli. Occorrerebbe riscoprire i bond di distretto o di filiera con il vantaggio di avere garanzie condivise». Siamo lontani, molto lontani dalla finanza d'impresa di stampo anglosassone. «Non abbiamo in Italia di fatto – dice Francis Morandi managing partner di Tema Consultants – un mercato dei commercial e financial paper. Finanziamenti a breve-brevissimo termine molto sviluppati negli Stati Uniti. Da noi sono identificabili giuridicamente come "cambiali finaziarie". Occorrerebbe sviluppare un mercato elettronico dei capitali gestito da società specializzate dove far incontrare in tempo reale domanda e offerta. E a questo punto basterebbe un accordo tra rappresentanze imprenditoriali e una primaria investment bank». Darebbe una boccata d'ossigeno al sistema fiaccato dalla sete di credito.
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