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Questo articolo è stato pubblicato il 13 giugno 2013 alle ore 06:43.

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ROMA
Il procuratore della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo, rischia il trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale. Il vice presidente del Csm, Michele Vietti, prova a sdrammatizzare e dice che si tratta di «un procedimento amministrativo, siamo alle battute iniziali, comporta la convocazione del magistrato a garanzia delle sue buone intenzioni: non anticipiamo giudizi».
Ma le conclusioni della prima commissione del Consiglio superiore della magistratura sono un macigno incombente sulla sorte di Messineo. Il procuratore è stato convocato a palazzo dei Marescialli per il 2 luglio prossimo per difendersi. Certo è che la scelta di aprire la procedura per il trasferimento d'ufficio è stata presa con il voto favorevole di tutta la commissione e l'astensione del laico del Pdl Nicolò Zanon. Motivazione: Messineo «non può continuare a esercitare con piena indipendenza e imparzialità» le sue funzioni.
I principali accusatori sono due procuratori aggiunti di Palermo, Teresa Principato e Leonardo Agueci. La censura avanzata contro il capo della della procura di Palermo è pesante: avrebbe «perso piena libertà e indipendenza» nei confronti del procuratore aggiunto Antonio Ingroia, o quantomeno c'era con lui un «rapporto privilegiato» («peraltro successivamente ammesso» dal diretto interessato). Un quadro in cui, secondo il Csm, si inserisce la circostanza che Ingroia - il quale, peraltro, era titolare di uno dei processi a carico del cognato del procuratore, Sergio Sacco - tenne in un cassetto per cinque mesi intercettazioni che riguardavano Messineo informando la competente procura di Caltanissetta soltanto qualche giorno prima di lasciare il suo incarico di aggiunto per andare in Guatemala. Si tratta delle intercettazioni per le quali in seguito il procuratore è stato indagato per rivelazione di segreto d'ufficio con l'accusa - caduta oggi con l'archiviazione del procedimento - di aver passato informazioni a Maiolini su un'indagine che lo riguardava. E Palazzo dei marescialli imputa a Messineo relazioni «inopportune» con «soggetti titolari del potere economico e politico locale». Il riferimento è proprio a Maiolini. Nelle carte si racconta che il procuratore invitò il suo sostituto Verzera che indagava per usura bancaria a «soprassedere, in attesa di ulteriori acquisizioni» all'iscrizione del direttore di banca, a lui legato da «rapporti di amicizia». Rapporti continuati anche durante l'indagine della procura di Palermo e tanto consolidati che Messineo in passato aveva chiesto e ottenuto da Maiolini «un posto di lavoro per suo figlio» Alessandro. Ma forse c'è un'accusa ancora più grave, per quanto forse imponderabile, lanciata dal Csm: Messineo non avrebbe favorito la circolazione interna di informazioni sulle indagini e «conseguenza di questo difetto di coordinamento, sarebbe stata la mancata cattura del latitante Matteo Messina Denaro». Niente scambio di notizie nemmeno sulle modalità di gestione del pentito Ciancimino e in generale sull'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia: quando alcuni pm si lamentarono con il procuratore, lui rispose che «era sua intenzione» tenere riunioni sulle indagini «ma che erano altri colleghi (riferendosi implicitamente a Ingroia, Di Matteo e a Sava) a essere dissenzienti». «Non meno grave» è il «mancato adempimento dei suoi doveri di vigilanza in relazione ai rapporti con la stampa di alcuni magistrati del suo ufficio» scrive ancora il Csm imputando a Messineo la rinuncia a esercitare poteri di coordinamento e direzione dell'ufficio «dando deleghe in bianco o isolandosi in un silenzio totale».
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