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Questo articolo è stato pubblicato il 18 giugno 2013 alle ore 06:41.

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Il processo a porte chiuse ai dissidenti grillini, ovvero il processo attraverso la "rete", che poi è come dire due facce della stessa medaglia, rende esplicito soprattutto un aspetto, forse il più importante. E cioè quanto sia poco realistico immaginare che da una costola del movimento Cinque Stelle possa nascere quasi per miracolo una forza scissionista, ordinata e coerente in grado di proporsi, soprattutto al Senato, come potenziale partner di un centrosinistra in cerca di alternative alle larghe intese con Berlusconi.
Sembra di capire invece che dalla crisi verticale del "grillismo" può derivare più che altro una riaffermazione del carattere settario di questo non-partito. Avendo solo una carta da giocare (il carisma del capo), è chiaro che tutto il resto ne discende. Quindi nessun vero chiarimento sulla linea politica e sul modo di stare nelle istituzioni, ma forse nemmeno una decisione definitiva circa il destino dei "frondisti". In fondo rinviare tutto al web e ai suoi rituali pseudo-democratici significa lavarsene le mani e rinunciare a fare una scelta. O meglio, una scelta c'è già ed è il bagno di legittimazione in Internet del leader, che ne ricaverà l'abbraccio elettronico dei suoi fedeli e la conferma – per lui rassicurante – che la setta rimane tale.
In sostanza, non c'è alcuna probabilità, come è ovvio, che qualcuno possa sfidare con successo Grillo, cioè l'ideatore, fondatore, animatore del movimento. D'altra parte, proprio la profonda ambiguità dei Cinque Stelle rende molto difficile dar luogo a scissioni vecchio stile, con un leaderino e il suo gruppo organizzato che dà vita a un partito vassallo del Pd. Se qualcuno in via del Nazareno lo ha sperato per un momento, di sicuro pensava a qualche gioco tattico in chiave congressuale. Non può aver creduto sul serio che si possa imbastire una maggioranza stabile grazie al contributo di eventuali scissionisti. Che saranno pochi, disorganizzati e privi di un'identità certa.
È chiaro in ogni caso che i Cinque Stelle sono destinati ancora a lungo a restare un punto interrogativo. Salvo casi sporadici, gli eletti "grillini" non riescono a rappresentare una vera istanza riformista, ma nemmeno a essere il martello pneumatico della "casta": ossia dei giacobini intransigenti, come essi amano immaginarsi. Ne deriva che nel prevedibile futuro le larghe intese Pd-Pdl-centristi restano la formula obbligata. Può non piacere, ma questa è la realtà. E in apparenza la constatazione non dovrebbe pesare troppo dalle parti del Pd, visto che i risultati del voto amministrativo di pochi giorni fa sono stati positivi per il centrosinistra e molto negativi per il centrodestra.
Forse però la verità è meno confortevole ed è che sul piano politico nazionale il centrodestra continua a godere di un margine di vantaggio. Anche perché l'eterno Berlusconi ha dimostrato fin qui di saper stare nelle larghe intese con ben maggiore agio e disinvoltura del centrosinistra. D'accordo, vedremo adesso la sentenza della Consulta e le sue possibili conseguenze. Ma sul piano politico Berlusconi si muove con agilità, fino ad annettersi le misure "del fare" appena varate da Letta. Il quale giustamente ha dovuto sottolineare: «Guardate che non sono mica provvedimenti di destra». E anche sulla politica europea Berlusconi è come sempre svelto e spregiudicato. Il tetto del deficit non sarà "sforato", ma all'elettorato arriva il messaggio che il nemico dell'austerità è lui: l'uomo che peraltro, da premier in carica, non fece nulla per sottrarsi ai vincoli di Maastricht.
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