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Questo articolo è stato pubblicato il 21 giugno 2013 alle ore 06:41.

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PECHINO. Dal nostro corrispondente
L'economia cinese non dà segni di ripresa. La domanda globale carente - specie quella proveniente dall'Europa - costringe l'intero sistema industriale della Cina, legato ancora a un modello orientato alle esportazioni, a profonde ristrutturazioni interne. La scrematura tra le aziende è massiccia, chi non regge al ritmo più blando di crescita dell'economia è fuori e se proprio non riesce a convertirsi in qualcosa d'altro, chiude i battenti. Solo le aziende con le spalle larghe, specie quelle a carattere privato, approfittano del Go global e fanno i migliori affari all'estero, proprio in quei mercati indeboliti dalla crisi che non comprano più beni strumentali o prodotti finiti made in China. Sono i cinesi a comprare loro.
I nuovi vertici politici non si smuovono di un millimetro di fronte a questo scenario: com'è noto, non vareranno massicce misure di stimolo come è successo cinque anni fa, in piena crisi planetaria, puntando invece su misure orientate alla crescita i cui benefici, per il momento, non sono apprezzabili.
Così a giugno si è ripetuto il calo registrato a maggio: l'attività delle imprese ha segnato un ulteriore indebolimento, accentuando una dinamica di contrazione già in atto e finendo ai minimi da nove mesi a questa parte. Il Purchasing managers index (Pmi), elaborato dalla società di ricerche Markit Economics con la banca Hsbc segnala che l'indice è calato a 48,3 punti, dai 49,2 punti di giugno, il minimo degli ultimi nove mesi.
La soglia dei 50 punti rappresenta lo spartiacque tra crescita e contrazione dell'attività. Sul solo e gigantesco settore manifatturiero cinese, l'indice Pmi ha segnato un calo di 48,8 punti dai 50,7 di maggio, finendo ai minimi da otto mesi a questa parte. Fin qui le percentuali. Ma l'aria è davvero cambiata se analisti come Hongbin Qu, di Hsbc, parlano di effetto combinato tra «deterioramento della domanda globale, moderazione della domanda interna e aumento delle pressioni, accompagnate dalla necessità di ridurre le scorte di magazzino».
Pechino preferisce ora usare le riforme per sostenere la crescita piuttosto che le iniezioni di aiuti statali a rischio di perdersi nei rigagnoli dell'economia locale. Se le riforme, però, hanno un effetto sul lungo termine, sul breve periodo hanno un impatto limitato. Morale: nel secondo trimestre del 2013 la crescita è ancora più debole. Sul fronte interno, ieri si è manifestata un'altra crepa, indotta dalla difficile situazione del settore pubblico: da settimane si moltiplicano i segnali di frenata della crescita ma anche di restrizione della dinamica del credito in Cina, sulla scia della scelta delle autorità di limitare i rischi di bolle finanziarie e il surriscaldamento dell'economia.
I tassi d'interesse del circuito interbancario cinese hanno segnato una impennata di 200 punti base toccando il record dell'8 per cento sui prestiti a un mese - dopo che la Banca centrale ha omesso di immettere liquidità supplementari in circolazione. La tensione sull'interbancario è stata nel 2007 in Europa e negli Usa la spia della crisi finanziaria globale, ma ieri quella tra la Banca centrale cinese ed i principali gruppi bancari del paese è stata una battaglia tutta interna.
Sul tavolo, il tema caldo dei tassi interbancari overnight schizzati ieri mattina fino al 25%, con il fixing fissato al 12,85%, in entrambi i casi massimi storici. Ma il problema è collegato alla stretta introdotta di recente nel ricorso alla valuta estera come strumento di speculazione, un "giochino" che si è scaricato sul renminbi. I grandi gruppi a partecipazione statale, con una ben nota scarsa produttività, hanno anche la pericolosa tendenza a utilizzare il denaro ottenuto dalle banche per condurre spericolate speculazioni finanziarie. A questo la Banca centrale ha detto no. Anche a costo di far soffrire il mercato interbancario di una carenza di liquidità tale che fa impennare i tassi, la Banca centrale ha spiegato che «non ha alcuna intenzioni di iniettare liquidità addizionale nel mercato», piuttosto ha invitato le banche a «tagliare la leva e ridurre i prestiti alle industrie in stato di sovraccapacità produttiva ma anche di scarsa produttività». Tutto questo non ha alcun collegamento con il sistema di finanziamento dell'iniziativa privata e dell'accesso ai mutui che resta, almeno ai fini della stretta della Banca centrale, un fenomeno a parte.
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