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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2013 alle ore 08:38.

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di Alberto Negri Siamo a una svolta storica e l'aggettivo questa volta non è abusato: forse i Balcani, passo dopo passo, verranno diluiti nell'Unione e non rappresenteranno più, un giorno, "l'altra Europa", quella da cui prendere le distanze. Ma cosa sono i Balcani? In turco, balkan significa montagna. Uscendo da Sofia in direzione di Plovdiv, i Balcani compaiono improvvisamente anticipando la catena dei Carpazi: un massiccio modesto, che si stende da Est a Ovest della Bulgaria, ha dato il nome alla regione.
Dal malinteso del nome, esteso per errore a tutta la penisola, si è passati a indicare con il termine Balcani tutto ciò che si oppone - per costumi, cultura e tradizioni - all'Occidente. Ma ha anche acquistato un significato politico. Con l'agonia dell'Impero Ottomano si è avuta tra l'800 e il '900 la "balcanizzazione", cioè la spartizione e l'asservimento degli Stati rivali alle grandi potenze in lotta.
Il termine balcanizzazione è diventato un paradigma negativo che ha ampiamente superato i confini europei. Un segno è la frammentazione degli Stati accompagnata da un desiderio di omogeneità in cui le minoranze religiose ed etniche sono le prime vittime. Mentre si discute di società multi-culturali, si moltiplicano le rivendicazioni nazionali, i particolarismi confessionali e tribali. Anche per la ex Siria, come un tempo per la ex Jugoslavia, oggi si parla di balcanizzazione e di divisione in due o tre Stati diversi.
Le guerre nate dalla disgregazione della Jugoslavia tra il 1991 e il '99 sono state segnate da un passato che non passava mai e da ogni stereotipo possibile sui Balcani. La pulizia etnica, le stragi, gli stupri di questo decennio hanno rappresentato in un certo senso il prolungamento e, si spera, la fase terminale di un orrore che aveva già riempito i cimiteri di altre nazioni. Le ultime guerre balcaniche hanno costretto l'Europa a guardare ancora in faccia una barbarie che si pensava sepolta con la disfatta del nazismo e il crollo del comunismo.
All'origine di questo dramma - 200-300mila morti e 4 milioni di profughi - c'è stato l'ipernazionalismo serbo identificato in Slobodan Milosevic: l'etnia maggioritaria non rinunciava alla supremazia conquistata con le armi durante la prima guerra mondiale e poi legittimata dalla lotta partigiana di Tito contro il Terzo Reich. Dopo avere abbandonato la Slovenia al suo destino, la Serbia ha aperto prima il fronte di guerra in Croazia, poi in Bosnia-Erzegovina - con il massacro degli 8mila morti di Srebrenica - e infine nel'99 in Kosovo, quando l'intervento della Nato e i bombardamenti alleati costrinsero Belgrado a lasciare Pristina.
Ma il nazionalismo esasperato non fu soltanto un marchio esclusivo di Milosevic, che nell'89 aveva agitato il fantasma della Grande Serbia: Franjo Tudjman a Zagabria aspirava a una Grande Croazia mentre la guerra del Kosovo resuscitò i sogni di una Grande Albania. È stato calcolato che se ogni Stato avesse dovuto conquistare la superficie rivendicata dai suoi leader, i Balcani avrebbero dovuto essere due volte più estesi di quanto effettivamente non siano.
Ecco perché oggi, mentre la Croazia fa il suo ingresso in Europa, la Serbia inizia a gennaio il processo di adesione e il Kosovo quello di associazione, siamo di fronte a una svolta. Peraltro incompiuta: la Bosnia galleggia con le sue due entità (Federazione croato-bosniaca e Repubblica Sprska) in una sorta di limbo, l'Albania, il Montenegro e la Macedonia sono in sala d'attesa, e soprattutto gli accordi tra Belgrado e Pristina dovranno essere attuati sul terreno, altrimenti torneremo alle tensioni del passato. Ma c'è la speranza che in futuro non penseremo più ai Balcani come "all'altra Europa" e guarderemo indietro soltanto con un soffio di Jugo-nostalgia a un tempo in cui popoli diversi, prima di massacrarsi, avevano vissuto insieme una lunga e tormentata avventura.
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