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Questo articolo è stato pubblicato il 30 giugno 2013 alle ore 17:03.

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Egitto, la gente chiede le dimissioni di Morsi per le mancate risposte alla crisi economica

IL CAIRO - È per le mancate risposte a una crisi economica precipitosa che gli egiziani occupano di nuovo le piazze e chiedono le dimissioni di Mohamed Morsi. Eppure, dice un diplomatico europeo, «la situazione è tragica ma non seria». Gli esperti ricordano che il debito pubblico è passato da 33 a 45 miliardi di dollari: se per la fine dell'anno non si trovano altri 20 miliardi, oltre a quelli già dati dagli arabi del Golfo, dalla Libia e dalla Turchia, l'Egitto fallisce.

È la parte "tragica" della questione. Poi c'è quella che la rende "non seria". Il sistema bancario locale ha una grande liquidità: «Raccolgono 100 e investono 60», spiega il manager di un istituto privato. Ma questo è il meno. Oltre 48 milioni di egiziani - la metà della popolazione - non hanno alcun rapporto con le banche: non un conto, mai visto un assegno né un bancomat. Sono soprattutto commercianti, titolari di piccole e medie imprese, e i loro dipendenti. È una montagna di denaro che in parte resta sotto il materasso, in gran parte circola. Difficile quantificarla. Solo nel commercio, nell'industria e nei servizi sono un milione e mezzo d'imprese con otto milioni di impiegati.

Infine, come in ogni Paese arabo, c'è la rete familiare, il sistema di garanzia sociale forse più efficiente e pratico al mondo. È tutto questo che rafforza in molti egiziani la pericolosa convinzione che il loro sia un Paese "too big to fail": troppo importante per fare bancarotta. A un forum italo-egiziano organizzato dal nostro ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, gli ospiti egiziani di ogni credo politico e convinzione economica si stupivano indignati che i 4,8 miliardi offerti dal Fondo Monetario Internazionale richiedessero "condizioni": riforme economiche, sociali e democrazia. Ma in piazza anche gli oppositori stanno gridando slogan contro il "colonialismo" dell'Fmi.
Sono convinti che l'Egitto debba essere aiutato in quanto Egitto. Come hanno fatto i Paesi della regione: Libia, 2 miliardi più 1,5 in petrolio; Turchia 2; sauditi 1; Qatar 8 promessi, quasi 5 sborsati. Il loro aiuto non era condizionato da nessuna richiesta. È solo diverso il tasso d'interesse del prestito: 3,5% (il Qatar ha rimodulato il suo al 3). Il Fondo offre il suo all'1,5%. E non si tratta solo di 4.8 miliardi ma almeno del doppio: il sì del Fondo sarebbe una apertura di fiducia al Paese. Dalla Ue, dalla Banca europea di sviluppo e da altre istituzioni multilaterali arriverebbe una cifra come minimo uguale.

Ma, appunto, è un problema di credibilità. Le insondabili risorse interne sotto i materassi dall'Alto Nilo al Delta e l'aiuto degli arabi permettono all'Egitto di non fallire, non di crescere né di evitare le proteste di piazza. Le riserve valutarie sono appena risalite sopra il livello di guardia: da 13 a 16 miliardi di dollari. Ma non sono certezza di investimenti internazionali, infrastrutture, radicali riforme. I sussidi all'energia - una richiesta di riforma pressante del Fondo - drenano più dell'8% del Pil e non garantiscono la parte più povera della società: secondo il World Food Program dell'Onu fra il 2009 e il 2011 il 15,2% della popolazione è scivolata nella povertà, il doppio di quella che ne è uscita. Ma un altro degli slogan forti delle manifestazioni è contro l'eliminazione dei sussidi.

Nel Paese sul quale forse piove cinque giorni l'anno, solo l'1% dell'energia elettrica consumata viene dal solare: esclusa dai sussidi, una unità costa il 150% più di una ad energia tradizionale. Il portavoce dei Fratelli musulmani al potere, Mourad Mohammed Aly, garantisce che il governo ha già varato «un piano quinquennale per ristrutturare i sussidi. Dobbiamo farlo: solo le compagnie telefoniche l'anno scorso hanno avuto un miliardo e 200mila litri di benzina a prezzo politico». Ma Ishac Diwan, direttore per il Medio Oriente al Centro per lo sviluppo internazionale di Harvard, ricorda che «potrebbe passare una generazione prima di realizzare le riforme».

Il problema del Medio Oriente, enfatizzato dal Paese più popoloso della regione e un tempo il più autorevole, è quello di un modello economico. «Diversamente dall'Europa dell'Est più di 20 anni fa, quando molti andarono verso il modello economico della Ue, oggi i Paesi arabi in transizione sono privi di un vero modello per la loro destinazione economica finale», sostiene Masood Ahmed, il direttore regionale del Fmi.

Tutti gli uomini della Fratellanza che contano sono anche uomini d'affari. Lo sono Khairat al-Shater e Hassan Malek, i possibili candidati alla successione di Morsi, se il presidente dovesse dimettersi sotto la spinta delle manifestazioni. Malek ha creato la Egypt Business Development Association, la Confindustria della fratellanza. Nel biglietto da visita di Mohammed Aly non è indicato il suo ruolo di portavoce del movimento ma di "Regional Managing Director" di Lundbek, multinazionale farmaceutica.

Per questa vocazione imprenditoriale del suo movimento, le opposizioni accusano Morsi di non essere diverso da Mubarak. Dopo un anno di potere, l'idea di un laissez faire egiziano, coltivata da al-Shater e dagli altri, è stata ammorbidita dalla necessità di qualche compromesso importante. Soprattutto con i militari perché si sentissero rassicurati: per loro nulla cambierà con l'Islam politico al comando. Le privatizzazioni e il liberismo della fratellanza si fermano ai cancelli dei grandi kombinat industriali di modello sovietico, controllati dalle forze armate.

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