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Questo articolo è stato pubblicato il 03 luglio 2013 alle ore 06:39.

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ROMA
Da 34 a 10 miliardi di dollari in un anno. Il crollo degli investimenti diretti esteri in Italia registrato nel 2012 (circa il 70% in meno) non fa che aumentare le distanze. Guardando alla media 2008-2012, gli investimenti verso il nostro Paese hanno rappresentato lo 0,6% del Pil, dato ben lontano dal 2,8% del Regno Unito e dall'1,4% della Francia. Il gap resta, e ben vistoso, anche sugli stock netti di investimenti in entrata, con una quota dell'1,6% sul dato globale comparata al 5,8% britannico, al 4,8% francese e al 3,1% tedesco.
Il calo italiano sembra avere insomma dimensioni più marcate rispetto a un fenomeno che comunque caratterizza la scena mondiale (investimenti in diminuzione del 18% a quota 1.350 miliardi di dollari). Per una diagnosi efficace il Comitato investitori esteri di Confindustria, presieduto da Giuseppe Recchi, insieme a Boston consulting group ha provato a mettere sui due piatti della bilancia vantaggi e svantaggi del sistema Paese.
L'Italia continua ad avere una struttura economica di primaria importanza. Ottava potenza economica per Pil, quarta per produzione mondiale nel manifatturiero (e seconda in Europa), può vantare 1.022 nicchie di eccellenza di prodotto. Tra i fattori di appeal, per citare i principali, ci sono il valore del "made in Italy", la posizione strategica per i flussi nel Mediterraneo, la rete dei distretti industriali. Sono diversi gli esempi di recenti acquisizioni da parte di investitori esteri, da Bulgari e Pomellato a Ducati e Brioni, così come non mancano multinazionali già presenti che continuano a scommettere sul nostro Paese, da Abb a Vodafone da Procter & Gamble a Novartis. Oggi, in Italia, le multinazionali contano 1,2 milioni di addetti diretti e 1,9 milioni nell'indotto e, pur essendo solo lo 0,3% delle imprese attive sul territorio nazionale, esprimono il 24,4% della spesa in R&D. Ma il contesto resta ancora estremamente complesso con 45mila addetti di multinazionali coinvolti dai tavoli di crisi aperti dal ministero dello Sviluppo.
«Ci sono 1.400 miliardi di dollari che volano sul mondo, ogni anno per investimenti diretti esteri in cerca di un luogo su cui atterrare – commenta Recchi – ma l'Italia rischia di perderli perché manca l'organizzazione». Le multinazionali estere – prosegue il presidente del comitato – «non chiedono privilegi o corsie di sorpasso ma di non vivere di improvvisazione e nell'incertezza». Non è un caso che, tra le proposte presentate dalle 90 multinazionali che compongono il comitato, «si raccomanda l'istituzione di un ufficio presso l'Agenzia delle Entrate con una competenza mirata». Le proposte sono in tutto 25, elaborate da sei gruppi di lavoro tematici coordinati da altrettanti manager: programmi e strutture di attrazione, fisco, lavoro, education, ricerca, giustizia.
Sull'incertezza in materia di fisco si sofferma anche Sandro De Poli, presidente di General Electric Italia e Israele: «I tempi lunghi per adempiere alle procedure e l'elevata pressione fiscale sono le principali difficoltà per chi arrivare a fare business in Italia». Sami Kahale, presidente e ad Procter & Gamble, mette in luce «l'importanza di avere un solo interlocutore» anche consolidando il ruolo del Desk Italia istituito con il decreto crescita bis. Cesare Avenia, presidente di Ericsson Telecomunicazioni, pone l'accento sul mercato del lavoro sottolineando ad esempio l'importanza di rivedere la legge del 1991 sulla mobilità. Pietro Guindani, presidente Vodafone Italia, chiede politiche più efficaci per la formazione, mentre Giuliano Tomassi Marinangeli, presidente e ad di Dow Italia, propone di ampliare le competenze del Tribunale delle imprese.
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