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Questo articolo è stato pubblicato il 03 luglio 2013 alle ore 06:40.

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IL CAIRO. Dal nostro inviato
Il primo ultimatum, quello dei Tamarrud, i ribelli, è scaduto ieri pomeriggio senza che accadesse nulla. Mohammed Morsi è sempre al suo posto e non sembra dare segni di cedimento. Ma era la meno importante delle richieste perentorie. La più pesante, quella dei militari, scade entro questa sera, ma Morsi l'ha già respinta ieri sera.
La road map dei militari, che scatterebbe nel caso non accadesse nulla, prevedrebbe la sospensione temporanea della Costituzione e la dissoluzione di quel che resta el Parlamento, a maggioranza islamica. Ma al momento i Fratelli musulmani sembrano non dare retta a nessuno. Più di nove ore dopo l'intervento di lunedì del generale Abdel Fattah al-Sisi, il capo di stato maggiore, e solo alle due del mattino come per non dare peso alle richieste, un portavoce ha letto la risposta di Morsi. «Il presidente non era stato consultato riguardo alle dichiarazioni rilasciate dalle Forze armate». Alcuni punti «potrebbero causare confusione nel complicato panorama nazionale». Nessun riferimento a dimissioni. Al contrario, è stato annunciato che presto il presidente renderà noto il suo «piano di rilancio nazionale». Una risposta alla «road map per il futuro immediato dell'Egitto», annunciata dai militari.
Come concessione agli oppositori, il piano di Morsi prevedrebbe un referendum non direttamente su di lui ma sulla durata del suo mandato: se debba continuare fino alla scadenza fra tre anni o meno. In nome delle piazze, i Tamarrud rifiutano di prendere in considerazione la proposta: l'unica cosa che il presidente deve fare è andarsene.
Sia pure a distanza, è iniziata un'offensiva diplomatica americana. Barack Obama ha parlato al telefono con Morsi, ricordando che solo il «processo democratico» può risolvere la crisi. Anche il generale Martin Dempsey, il capo di stato maggiore americano, ha telefonato al suo omologo egiziano. Di questo colloquio non viene riferito alcun dettaglio. Gli Stati Uniti garantiscono 1,3 miliardi di dollari l'anno alle Forze armate egiziane. L'aiuto di quest'anno era stato riconfermato solo tre settimane fa.
Come Hosni Mubarak, anche Morsi è sotto pressione da più parti. Ma diversamente dall'ex dittatore, il presidente non è solo. La Fratellanza islamica non è stata capace di portare in piazza un numero paragonabile a quello delle opposizioni. Ma il suo consenso è ancora piuttosto forte e la capacità di mobilitazione del movimento è rimasta intatta. Se intendono farlo, gli Ikhwan, i fratelli, hanno i mezzi per scontrarsi con i militari e con gli oppositori. Mohamed al-Beltagui, leader di Libertà e giustizia, il partito della Fratellanza, annuncia che i suoi sono pronti al «martirio».
Ma Mohamed Morsi non può non tenere conto dei sei ministri che hanno rassegnato le dimissioni. Alla seduta di gabinetto di ieri era evidentemente assente anche quello della Difesa, il generale al-Sisi che è anche capo di stato maggiore. E i militari non possono ignorare che anche nelle file delle opposizioni qualcuno si stia chiedendo se sia un bene richiamare i generali sulla scena politica, dopo che ne erano stati cacciati sono un anno fa. Quando Morsi insinua l'idea del "colpo di stato", anche qualcuno dei suoi avversari è costretto a considerare il problema.
Dopo gli scossoni fra domenica e lunedì, fra le manifestazioni oceaniche (sette i morti di ieri) e gli ultimatum, l'Egitto è di nuovo in mezzo alla sua stessa palude. Morsi ha assunto posizioni troppo precise, per non rischiare la sua definitiva fine politica. I militari si sono troppo scoperti per ritornare nelle caserme come non fosse accaduto nulla. Nei loro luoghi di mobilitazione - gli oppositori in piazza Tahrir, la fratellanza a Nasr City - i manifestanti presidiano il campo e attendono pericolosamente gli eventi. «Il popolo ha fatto cadere il regime ancora una volta», cantano gli oppositori in piazza Tahrir. Come minimo un annuncio prematuro.
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