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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2013 alle ore 14:22.

Due anni di riforme mancate

IL CAIRO. Dal nostro inviato
Soddisfatti dall'inaspettato successo, i manifestanti di Tahrir hanno lasciato la piazza per tornare alla loro vita normale. Per un numero crescente di loro e di egiziani di ogni altro credo politico, quotidianità significa disoccupazione: quella ufficiale è salita a 13%, la reale è molto più alta. Per qualcuno significa fame: dal 2011, quando è iniziata la rivoluzione, gli egiziani scivolati sotto la linea statistica della povertà sono passati dal 21 al 25%.

I disoccupati, i poveri e tutti gli altri, più fortunati, tornano a fare i conti con un'inflazione all'8% che indebolisce il loro già scarso potere d'acquisto. E quando si rimetteranno in coda per fare benzina, ricorderanno l'ammonimento del ministro del Petrolio Sherif Haddara, qualche giorno prima di questa ultima rivoluzione: «Abbiamo intaccato la nostra riserva strategica, si esaurirà entro la fine del mese».

Il prossimo governo - salutato per ora alla Borsa del Cairo con un guadagno ieri del 7,3% - cercherà di attrarre di nuovo gli investimenti stranieri crollati da 2,9 a 1,5 miliardi di dollari in meno di due anni. Quelli privati egiziani sono scesi da 36 a 18, e 4.500 imprese sono state chiuse. Il nuovo si sentirà rispondere quello che gli ambasciatori dei Paesi Ue hanno recentemente detto al vecchio governo dei Fratelli musulmani: dall'Europa non verranno nuovi investimenti fino a che non saranno protetti quelli esistenti. Quasi tutti gli accordi fatti dalle imprese italiane prima della rivoluzione del 2011 non vengono rispettati o sono stati sospesi unilateralmente.
Poi c'è la trattativa senza fine con il Fondo monetario internazionale per un credito da 4,8 miliardi di dollari. Se si arrivasse a un accordo, sarebbe un'iniezione di fiducia che genererebbe altri 15 miliardi in aiuti dalla Ue, la Bers, organizzazioni multilaterali e governi.Non è la prima volta che l'Egitto è in crisi. Vent'anni fa il deficit di bilancio era al 20%, ora è al 12. Anche l'inflazione era al 20. A partire dal 2000 era iniziata una crescita solida e sostenibile, interrotta solo dalla crisi globale del 2008. La maggioranza degli egiziani non ne ha goduto i benefici perché le riforme economiche realizzate dal regime di Hosni Mubarak per raggiungere quel successo non erano accompagnate da un sistema di regole e controlli per evitare gli abusi del regime e degli imprenditori suoi alleati.

Come l'egiziano medio tornerà alla sua inflazione e all'angoscia del pieno di benzina, passato il nuovo furore rivoluzionario anche i militari che li hanno protetti e ora li guidano di nuovo faranno ritorno alla loro quotidianità. Torneranno a un bilancio della Difesa che con ogni regime resta un segreto di Stato, separato dal conto civile. A un'industria di proprietà delle Forze armate, come a Cuba e in Cina, che dovrebbe equivalere a una percentuale fra il 20 e il 30 dell'economia nazionale: la forbice così ampia dimostra l'assoluta opacità del settore economico militare. Anche una parte del miliardo e 300 milioni di aiuti militari americani annuali è investita in joint venture firmate con lo stato maggiore per produrre beni di consumo.

E naturalmente il dicastero della Difesa appartiene ai militari: è il comandante in capo delle Forze armate che fa il ministro. La giustificazione è che quello egiziano è un esercito di popolo. Anche l'israeliano lo è e le questioni della sicurezza sono anche più sensibili. Eppure c'è la totale trasparenza sul bilancio della Difesa e la ricerca militare è stata uno dei pilastri del fenomeno delle start-up civili.

Possono i militari, tornati a guidare la Primavera egiziana, fare riforme economiche da XXI secolo? Nella precedente e recente esperienza del Consiglio supremo militare del generale Tantawi, riportato nelle caserme dai Fratelli musulmani, furono i militari a impedire che si aprisse il negoziato con il Fondo monetario: sarebbe stata una limitazione della sovranità nazionale. Il suo successore, il generale al-Sisi, è di un'altra generazione ma l'apparato militare-economico è fondamentale anche per i più giovani.

L'ostilità egiziana verso gli investimenti stranieri è storica, ideologica e frutto di interessi concreti. Solo il governo dei tecnocrati guidati da Gamal Mubarak, il figlio di Hosni, ruppe il tabù. L'ostilità dei militari e di buona parte delle opposizioni si è radicata ancora di più. Come l'avversione per le riforme economiche a lungo termine e l'attrazione per i provvedimenti populisti, in una stagione di crisi e di instabilità politica. Lo dimostrano quasi tutti i governi da piazza Tahrir in poi. Il primo di Ahmed Shafiq (gennaio-marzo 2011) ha aumentato del 15% i salari pubblici e dei militari; migliaia di contratti a termine sono diventati a tempo indeterminato. Essam Sharaf (marzo-dicembre 2011) ha approvato il più grande Bilancio della storia egiziana: da 69 a 91 miliardi di dollari, aumentando del 20% la spesa pubblica. Kamal al-Ganzour (dicembre 2011-agosto 2012), stabilendo i salari minimi, ha anche approvato piani per il rilancio dell'economia.

Per qualche mese la crescita era salita del 5%. Hesham Qandil (agosto 2012-luglio 2013), della fratellanza, aveva preparato un pacchetto di riforme su fisco, sussidi, investimenti esteri. Non è stato fatto nulla perché il presidente Morsi cercava il consenso popolare per fare approvare la sua Costituzione di stampo islamico. Tutti tranne Ganzour hanno fatto metà del lavoro: si sono occupati dell'aspetto sociale della crisi ma non delle riforme per uscirne. La rivoluzione continua.

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