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Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2013 alle ore 08:26.

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PECHINO. Dal nostro corrispondente
La contesa sui pannelli solari made in China è diventata l'incubo dal quale tutti vogliono svegliarsi. L'Europa, in particolare, impegnata com'è nei negoziati in corso a Pechino da giorni per raggiungere una soluzione prima del 6 agosto, la deadline entro la quale i dazi Ue provvisori, pari all'11,8%, schizzeranno al 47,6% se non si troverà l'accordo. In ballo ci sono circa 27 miliardi di euro in pannelli, celle e wafers sfornati da colossi in panne come Trina Solar, Yingli Green Energy e Suntech Power Holdings, che annaspano perché non sanno a chi vendere il surplus produttivo.
Per la Cina si tratta di un negoziato di vitale importanza, dal quale dipende la sopravvivenza del modello industriale adottato finora. Con un'economia che rallenta rispetto alle prospettive ben più rosee di qualche mese fa - se tutto andrà per il verso giusto si parla del 7,4% - ogni intoppo negli scambi commerciali rischia di diventare un boomerang letale. L'industria dei pannelli, da sola, offre 400mila posti di lavoro in Cina, una bomba a tempo che le autorità vogliono disinnescare trovando un compromesso onorevole. Concepito a Pechino, partorito a Bruxelles. Con l'unico scopo di fissare una tregua nel reciproco gioco di ritorsioni.
Si sta facendo strada, in queste ore, l'ipotesi ventilata da tempo dai tecnici di Pechino, cioè quella di fissare un prezzo minimo entro determinate quote che, però, non sia al di sotto dei prezzi applicati in Cina. Questa soluzione salverebbe la faccia e l'economia.
Ma trovare la quadra è difficile, è una lotta contro il tempo: 10 gigawatt, vale a dire metà della produzione cinese, è la cifra magica. Come al solito, la voce più acclarata è quella dell'associazione di categoria: «Ci rendiamo conto - ha detto Sun Guangbin, segretario generale del dipartimento dell'energia solare della China's Chamber of Commerce for Import and Export of Machinery and Electronic Products - che la soluzione va trovata presto. Siamo ottimisti sulla direzione intrapresa».
Quindi, riassumendo: non più di 10 gigawatt di moduli fotovoltaici, pari alla metà della produzione cinese. Ma fino a quel tetto, niente tasse all'import.
La soluzione va trovata con urgenza anche da parte europea perché, nel frattempo, la Cina ha pigiato l'acceleratore sui vini, sulla chimica, sul prezzo dei farmaci. Una vera e propria guerra totale del commercio come non si vedeva da tempo. Entro il 22 luglio gli esportatori europei di vino in Cina e gli importatori cinesi dovranno dimostrare che i prezzi in etichetta sono congrui e che, pertanto, non violano le regole della concorrenza sleale. Un monitoraggio che si profila complesso, anche per gli stessi produttori cinesi che hanno sollevato il problema del dumping e sui quali incombe l'onere della prova del danno subito.
Non solo. Chimica e farmaceutica, a diversi livelli, sono finite nel mirino di Pechino: la toluidina importata dalla Germania, i farmaci prodotti in joint venture, tra gli altri dalla britannica Glaxo, in Cina. Tedeschi e inglesi non hanno voglia di mettersi in urto con un partner commerciale della stazza dei cinesi.
Certo, sul vino gli stessi cinesi hanno smorzato i toni, sia il ministero del Commercio estero, sia la Camera di commercio specializzata nell'import di wine & spirits hanno fatto sapere che il mercato cinese non è affatto compromesso, ma è evidente che la partita vera si gioca sul solare. Karel De Gucht, il commissario europeo in prima linea nel negoziato sottotraccia, proprio ieri si è dichiarato «ottimista» sugli esiti possibili.
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