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Questo articolo è stato pubblicato il 11 luglio 2013 alle ore 06:43.


IL CAIRO. Dal nostro inviato
Dicono che il primo giorno di digiuno sia sempre il più difficile: l'organismo si deve abituare. Verso le 16 la gente sotto il palco della moschea di Rabaa al-Adawiya è sfinita. Dall'alba, l'unico ristoro sono i getti di acqua atomizzata che sparge il servizio d'ordine. Alle 17.45 tutti tirano fuori dalle tasche una bottiglia di plastica piena d'acqua. Alle 18, allo scadere del digiuno e all'inizio dell'Iftar, contemporaneamente 30mila persone si scolano la loro bottiglia.
È Ramadan ma i Fratelli musulmani non mollano davanti alla loro moschea di riferimento. Nemmeno i militari che possono contare su un aiuto miliardario dai Paesi del Golfo: approssimativamente sono almeno 20 miliardi, 12 raccolti negli ultimi due giorni. Su richiesta delle forze armate, il procuratore capo della repubblica ha emesso un mandato di cattura contro Mohamed Badie, la guida spirituale del movimento. È accusato di istigazione alla violenza: sarebbe lui il mandante del massacro di due giorni fa nel quale, fra gli altri dettagli, sono morti due poliziotti, un soldato e 48 Fratelli (è la versione dei militari).
«Secondo me non si consegnerà», dice Abdulrahman al-Bar, membro dell'Ufficio della Guida, il sinedrio di 12 persone della fratellanza. Naturalmente non dice dove Badie è nascosto. Probabilmente qui, dentro la moschea, protetto da migliaia di attivisti che con il calar della sera si moltiplicano. Così faranno per il mese di Ramadan e oltre.
Mohamed Morsi e il vertice della fratellanza, arrestati una settimana fa, restano in prigione "in luoghi sicuri"; Badie è ricercato come qualche altro centinaio di personalità del movimento: anche per loro sono stati emessi nuovi mandati di cattura. Ma il presidente ad interim Adly Mansour, scelto dai militari, continua a invitare la fratellanza alla riconciliazione. Difficile che la folla attorno alla moschea di Rabaa al-Adawiya non pensi sia solo una provocazione e che la loro determinazione venga meno. Solo con la forza verranno portati via da qui.
Tanti, ma sempre più isolati fuori da qui e dal quartiere di Nasr City, il loro fortilizio urbano. È difficile non definire solidarietà economica di massa quella mostrata da re ed emiri della penisola arabica. Ieri si è aggiunto anche il Kuwait con 4 miliardi di dollari: due in depositi alla Banca centrale, uno in crediti, uno in petrolio. Facendo la somma di quanto Arabia Saudita, Emirati, Qatar, più Libia hanno già promesso l'anno scorso, effettivamente dato e promesso in questi due giorni, siamo attorno ai 20 miliardi di dollari. Solo l'Olp di Arafat ha avuto di più ma in 70 anni.
Tradizionalmente, sono molti di più gli aiuti promessi di quanto effettivamente sborsati. Il prestito arabo di solito prevede un interesse al 3,5%. I 4,8 miliardi del Fondo monetario internazionale, congelati e ormai andati in fanteria, erano offerti all'1,5 ma richiedevano riforme economiche e politiche. Il più concretamente munifico è il Qatar: 5 miliardi versati. Li avevano dati a Morsi ma non li chiederanno indietro. Come la Turchia della fratellanza di Erdogan, che aveva dato un aiuto da 2 miliardi.
Il più attivo a parole è invece Abdullah, il re saudita. Due anni fa era stato l'ultimo a sostenere Hosni Mubarak, la settimana scorsa il primo a complimentarsi con il generale al-Sisi, il capo di stato maggiore: dando per certo che in Egitto sia avvenuto un golpe militare e non una rivoluzione democratica e laica.
Nessuna notizia invece dal fronte civile della rivoluzione/colpo di Stato. Mansour non riesce a formare il governo: per ora ha solo un vicepresidente e un primo ministro. Il Fronte di salvezza nazionale che riunisce la gran parte delle ex opposizioni laiche, ora confluito nel Movimento 30 giugno con i giovani Tamarrud, l'altro ieri aveva annunciato l'uscita dalla cosiddetta "road map per la conciliazione". Poi hanno cambiato idea: se non lo avessero fatto, l'intero castello messo in piedi dall'intervento dei militari sarebbe crollato.
Ma le critiche restano e sono importanti. Il Fronte guidato da Mohamed el-Baradei, Amr Moussa e dal nasseriano Hamdeen Sabahi, accusa Mansour di aver creato una nuova dittatura. I decreti che ha emesso danno effettivamente al presidente lo stesso potere assoluto che aveva Morsi, il presidente dei Fratelli musulmani, esautorato proprio per questo.
In assenza di una Costituzione e di un parlamento -gli obiettivi della road map - la situazione di emergenza impone l'assunzione di responsabilità straordinarie senza le quali l'Egitto in transizione non è governabile. Fronte e Tamarrud, invece, vorrebbero una discussione assembleare come se il parlamento ci fosse già. È la contraddizione fra governabilità e democrazia, in un Paese in grave crisi, già emersa nei passaggi precedenti della crisi egiziana: con i militari dello Scaf due anni fa e con i Fratelli musulmani l'anno scorso. È questo che rende senza fine la Primavera di questo Paese.
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