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Questo articolo è stato pubblicato il 13 luglio 2013 alle ore 08:20.

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PECHINO. Dal nostro corrispondente
Nella prima settimana di giugno la Cina ha registrato il più alto picco nella fuga di capitali dal 2008, anno della crisi mondiale, ben 834 milioni di dollari in una manciata di ore. Un brutto segnale al quale non si è dato, in apparenza almeno, grande rilievo, seguito com'è stato poi da una stretta nel credito mai registrata prima, finalizzata a sgombrare il campo da critici facili e prestiti erogati dal sistema creditizio parallelo.
Il fenomeno dell'outflow rischia di ripetersi irrimediabilmente dopo l'annuncio, ieri, dell'ennesima revisione verso il basso delle attese di crescita dell'economia cinese, "appena" il 7 per cento entro l'anno. Ormai il Pil cinese è diventato quasi materia per bookmakers navigati.
Lou Jiwei, ministro delle finanze, ha dato l'annuncio al termine di un comitato economico e strategico a Washington, Lou è un personaggio autorevole, ex numero uno del fondo sovrano Cinese, è un tecnico per il quale sarebbe accettabile anche un 6,5. La transizione sarà dolorosa, ma non è possibile raggiungere un confortevole livello di vita e una buona crescita senza aggiustamenti, tagli alle spese pubbliche per liberare risorse e ridurre le tasse per creare lavoro.
La nuova dirigenza cinese su questo si gioca la credibilità. E bisogna credere al fatto che una simile revisione non è drammatica, il punto è che ufficialmente il 7,5 dichiarato a marzo dal premier Li Keqiang non è stato aggiornato, nel frattempo rispetto all'obiettivo di ristrutturare l'economia la crescita sta perdendo peso, ieri lo Shanghai composite ha chiuso con 1,6% in meno: evidentemente, non ha apprezzato.
Ma la Cina dimostra di preferire una frenata economica al perpetuarsi delle cause che, oggi, stanno contribuendo a una crescita non sostenibile. Niente stimoli a pioggia, niente più aiuti non strategici, i cordoni della borsa restano ben legati, l'idea è affrancarsi da un'economia basata sulla domanda estera che, non a caso, continua a languire.
Intanto mentre i nuovi vertici definiscono la loro roadmap verso la ripresa, l'industria mostra di non essere in grado di trovare in se stessa la forza necessaria per attendere la svolta. C'è l'impatto sull'economia reale, con i colossi che iniziano a soffrire. Rongsheng ha chiesto aiuti nella prospettiva amara di dover fronteggiare un calo nelle commesse di nuove navi l'anno prossimo, acciaierie come Ping che vanno in tilt da mancanza di ordini esteri, fermano la produzione, i manager diventano irreperibili; altre come Yonghour, nate come gruppi del tessile sono ora alle prese con speculazioni immobiliari boomerang.
Uscite dal tunnel della stretta al credito, molte di queste aziende si ritrovano alle prese con le dure leggi del mercato.
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