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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2013 alle ore 16:24.

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Mafia, assolti Mori e Obinu. Per i giudici non favorirono Provenzano

Un primo punto fermo ormai c'è: il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu non sono colpevoli di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995. Gli atti relativi ai due grandi accusatori, Massimo Ciancimino figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito e il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, saranno inviati alla procura per una attenta valutazione. La formula utilizzata dai giudici è netta: i due ufficiali sono stati assolti perché «il fatto non costituisce reato». Questo il dispositivo letto dal presidente Mario Fontana: «Il Tribunale di Palermo, visti gli articoli 378 e 530 dl Codice di procedura penale, assolve Mori Mario e Obinu Mauro del'imputazione ai medesimi ascritta perché il fatto non costituisce reato. Visto l'articolo 207 del Codice di procedura penale ordina la trasmissione di copia della presente sentenza delle depisizioni rese da Ciancimino Massimo e da Riccio Michele all'ufficio del Procuratore della Repubblica in sede per quanto di sua competenza».

Una sentenza, accolta dalle contestazioni delle Agende Rosse, che mette un punto fermo anche in relazione a un altro processo, quello sulla trattativa tra Stato e mafia e i giudici sembrano andare nella direzione che, sul piano culturale, ha recentemente tracciato lo storico Salvatore Lupo (ma non solo lui), che alla storia della mafia ha dedicato numerosi testi: è nei compito delle istituzioni l'obiettivo di avere contatti anche con la criminalità organizzata per impedire fatti gravi. Il ragionamento certo è stato fatto per il processo sulla Trattativa ma potrebbe valere anche in questo caso, visto che il comportamento dei due ufficiali sarebbe stato, secondo l'accusa, diretta conseguenza di patti scellerati siglati con la mafia.

Stamattina si è tenuta l'ultima delle cento udienze che hanno caratterizzato questo procedimento durato oltre cinque anni in cui sono stati sentiti oltre novanta testo tra accusa e difesa. Ultimo spazio alla difesa e poi la corte si è riunita in camera di consiglio. La richiesta dell'accusa è stata di condannare i due ufficiali: per Mori sono stati chiesti nove anni mentre per Obinu sei anni e mezzo. Per la difesa, rappresentata da Basilio Milio e Enzo Musco, vanno invece assolti perché il «fatto non sussiste». «In questo processo durato quasi cinque anni - ha detto il pubblico ministero Nino Di Matteo (che ha rappresentato l'accusa insieme ai colleghi Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene) al principio della sua requisitoria - è emersa la più complessa storia dei rapporti tra Stato e mafia tra gli anni Ottanta e Novanta. Una storia cui una parte delle istituzioni, per un'inconfessabile ragione di Stato, ha cercato e ottenuto il dialogo con l'organizzazione mafiosa nel convincimento che quel dialogo fosse utile a fermare le manifestazioni più violente della criminalità e a ristabilire l'ordine pubblico. Questo è un processo drammatico in cui lo Stato processa se stesso». Così, intanto, si può dire che lo Stato ha processato se stesso e ha ritenuto che il fatto contestato non costituisce reato. Quali possano essere le conseguenze dirette sull'altro procedimento si vedrà: continua a essere ulteriormente screditato Massimo Ciancimino che ha provato in tutti i modi ad accreditarsi come testimone chiave.

Prima della sentenza il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi ha sostenuto che non vi sarebbero state grandi conseguenze e ha sottolineato più la rilevanza mediatica del processo (una folla di giornalisti ha assistito alla lettura della sentenza) che si chiude oggi in primo grado: «La sentenza - ha detto il magistrato - potrà avere una referenza sul processo per la trattativa tra Stato e mafia ma non di grandissima importanza. È una tappa molto importante, una tappa per cercare di ricostruire una stagione misteriosa. È chiaro che questo processo avrà un impatto mediatico molto forte ma sarà un impatto più di immagine che di sostanza».

Certo c'è anche una fortuita coincidenza che dà un valore simbolico ulteriore a questa sentenza: arriva alla vigilia delle celebrazioni del ventunesimo anniversario della strage di Via D'Amelio in cui morì Paolo Borsellino, che sarebbe stato eliminato proprio perché venuto a conoscenza della Trattativa tra Stato e mafia e da cui sarebbero poi derivato altri comportamenti deviati da parte di uomini dello Stato, come per esempio la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano. E dopo la sentenza Teresi ha aggiunto: «È inutile negarlo, siamo tutti amareggiati. Faremo appello perché non condiviiamo la sentenza certamente la rispettiamo ma non la condividiamo». Sugli atti trasmessi in procura con le dichiarazioni di Massimo Ciancimino e Michele Riccio, Teresi spiega: «Una decisione di coerenza con il ragionamento che ha fatto il Tribunale, ma sono tutte ipotesi. Il Tribunale evidentemente non ha creduto a quei testi e ritiene che possano essere elementi di valutazione da parte della procura. Adesso si tratta di capire i punti di vista di chi, come il Tribunale, ha analizzato le carte. In tutti i processi si può vincere e si può perdere ma sono importanti le motivazioni». Alla domanda se si aspettavano un'assoluzione, Teresi replica: «Ci può stare, qualunque processo finisce con un'assoluzione o condanna».

Per il legale di Mori Basilio Milio, e figlio di Piero, storico difensore del generale scomparso tre anni fa, quella di oggi è una «sentenza che mette fine a cinque anni di linciaggio mediatico, di teoremi, di falsità e di calunnie. Siamo contenti perché i condizionamenti e le pressioni sono stati costanti e lo sono stati fino ad oggi. I giudici hanno dimostrato di procedere per la loro strada e di guardare le carte che davano la prova della loro innocenza». Il generale Mario Mori ha ascoltato il presidente Mario Fontana che lo ha assolto ed è uscito dall'aula senza rilasciare commenti. Il colonnello Obinu non ha parlato con i giornalisti. Poi fuori dall'aula semplicemente una frase: «ora sì, ci possiamo abbracciare», rivolta a Basilio Milio. Solo «no comment» invece ai giornalisti che chiedevano un commento.

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