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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2013 alle ore 06:42.

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IL CAIRO
Un Egitto «stabile, democratico, inclusivo e tollerante», sarebbe l'idea degli americani. Non è stata la giornata giusta per arrivare al Cairo, quella scelta da William Burns, vicesegretario di Stato. Né deve essere stato contento di riceverlo in una giornata così, il generale Abdel Fattah al Sisi che quel modello di Egitto aveva proposto agli americani, cercando e ottenendo l'appoggio al suo golpe.
Almeno sette morti, 261 feriti, 401 arresti, il centro nevralgico della metropoli paralizzato per ore. Non era questa la giornata ideale per convincere i riluttanti Stati Uniti della progressiva normalizzazione e riappacificazione del Paese. La nomina e il giuramento del nuovo governo non sono notizie sufficienti per fugare le preoccupazioni. Era stata annunciata da giorni l'ennesima mobilitazione dei Fratelli musulmani, cacciati dal potere il 3 di luglio, quando i militari avevano arrestato il presidente Mohamed Morsi. La manifestazione avrebbe dovuto essere l'ormai tradizionale sit-in davanti alla moschea di Rabaa al- Adawiya, nel quartiere di Nasr City, roccaforte degli Ikhwan, i fratelli.
Diverse centinaia di sostenitori della fratellanza, invece, sono apparsi sul ponte 6 di Ottobre. Chiamarlo ponte è riduttivo: superato il Nilo, si trasforma in un cavalcavia lungo chilometri sopra la parte più abitata e caotica del Cairo. È un'arteria fondamentale: se chiusa, il traffico del Cairo diventa ancora più infernale di quanto non sia normalmente. È quello che hanno tentato di provocare i sostenitori di Morsi, bloccando il cavalcavia sopra piazza Ramses e la stazione ferroviaria per Alessandria. È come se, alla prima vera uscita dal fortilizio di Rabaa al-Adawiya, i Fratelli musulmani avessero cercato di raggiungere un obiettivo strategico, dando una forma più dinamica e pericolosa alla protesta.
Quello dell'altra notte è l'incidente più grave, dopo i 51 morti della settimana scorsa. In quel caso furono i Fratelli musulmani ad essere aggrediti e la battaglia si svolse davanti alla caserma della Guardia repubblicana: molto vicina a Rabaa al-Adawiya. Ieri i manifestanti si sono spinti nel cuore della città, sapendo di incontrare la violenza della polizia: come se i più radicali cercassero il martirio.
Occorre un certo coraggio politico per decidere di arrivare al Cairo in questo momento. Non l'ha avuto nessun europeo. Nemmeno gli arabi del Golfo che hanno promesso aiuti senza fine ai militari, si azzardano a tastare il campo di battaglia. Il coraggio lo hanno invece avuto gli americani che nel caos egiziano hanno molte cose in gioco. William Burns, oltre ad essere il vice del segretario di Stato Kerry, ha una grande esperienza di Medio Oriente. Comprensibilmente, i Fratelli musulmani non hanno apprezzato l'atto di coraggio e si sono rifiutati di incontrarlo: soprattutto per sottolineare che l'inclusività promessa dal nuovo governo egiziano e altamente richiesta dagli americani, è impossibile.
Non hanno apprezzato neanche i giovani Tamarrud, quelli che avrebbero iniziato tutto chiamando milioni di egiziani in piazza il 30 di giugno. Islam Hammam, uno dei leader, ha rifiutato l'invito perché «gli Stati Uniti non si sono messi fin dall'inizio dalla parte del popolo», mostrando la loro immaturità politica: sono così antiamericani da non essersi accorti che i militari hanno scippato la loro presunta rivoluzione. Anche i salafiti, islamisti radicali con un piede dalla parte delle forze armate e uno nella fratellanza, non hanno incontrato il visitatore americano.
«Non cercheremo di imporre il nostro modello», dice Burns agli altri egiziani, la maggioranza, che invece lo hanno incontrato con molto interesse. Secondo il vicesegretario di Stato questa «è una seconda opportunità per realizzare le promesse della rivoluzione». Il primo tentativo era stato quello di Morsi e dei Fratelli musulmani, eletti nelle prime e per ora uniche elezioni democratiche della storia egiziana. Sia pure con il tono della diplomazia e con molte incertezze su come stanno andando le cose, Burns è sceso al Cairo per schierarsi.
È quello che probabilmente si sono sentiti dire con più chiarezza il generale al-Sisi, capo di stato maggiore e ministro della Difesa, il vero uomo forte dell'Egitto; il presidente ad interim Adly Mansour e il primo ministro Hazem al-Beblawi che da due settimane cercano di comporre un nuovo governo. Il nuovo Egitto è stato rassicurato dagli americani. Ma anche il primo deve dare risposte concrete ai secondi che continuano a garantire un aiuto militare da 1,5 miliardi di dollari l'anno: un governo appena formato che lavori al più presto, un calendario per nuova Costituzione, elezioni parlamentari e presidenziali. Ma c'è la tenace resistenza dei Fratelli musulmani, con un seguito ancora consistente. Opporsi con i sit-in è una scelta di breve durata. A loro non restano che due opzioni: arrendersi e avviare un dialogo o alzare il livello dello scontro.
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