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Questo articolo è stato pubblicato il 18 luglio 2013 alle ore 06:42.

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PALERMO
Un primo punto fermo ormai c'è: il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu (a suo tempo nel Ros) non sono colpevoli di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995 mentre si trovava in un casolare nelle campagne di Mezzojuso nel palermitano. Gli atti relativi ai due accusatori, Massimo Ciancimino e il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, vanno inviati alla procura. La formula utilizzata dal presidente della quarta sezione del tribunale di Palermo Mario Fontana è netta: «Il fatto non costituisce reato».
Dopo cinque anni, 100 udienze, 90 testi tra accusa e difesa ascoltati, si chiude così quello che passerà alla storia come il "processo Mori", nato dalle accuse di Riccio che ha riferito le confidenze ricevute dal mafioso Luigi Ilardo (poi ucciso) e supportato dal racconto di Massimo Ciancimino. L'accusa, rappresentata da Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene aveva chiesto rispettivamente 9 anni per Mori e sei anni e mezzo per Obinu. Ed era stato Di Matteo nella sua requisitoria a enfatizzare il valore di questo processo: «Questo è un processo drammatico in cui lo Stato processa se stesso». E così, oggi, diventa importante il collegamento che questo processo ha con l'altro, quello sulla Trattativa Stato-mafia (in cui Mori è imputato) e da cui secondo l'accusa sarebbe scaturito il patto scellerato che avrebbe garantito la latitanza di Bernardo Provenzano fino all'aprile del 2012.
Dal processo che si è chiuso ieri esce sempre meno credibile Massimo Ciancimino il quale ha provato ad accreditarsi come testimone chiave e rischia di ritrovarsi imputato per l'ennesima volta. Dopo la sentenza il procuratore aggiunto Vittorio Teresi ne ridimensiona il ruolo: «Bisogna vedere il ragionamento che hanno fatto i giudici per ritenere non credibili Riccio e Ciancimino. Ciancimino è un testimone che nel processo Stato-mafia non ha la centralità che aveva in questo dibattimento». Sugli atti trasmessi in procura con le dichiarazioni di Ciancimino e Riccio, Teresi dice: «Una decisione di coerenza con il ragionamento che ha fatto il tribunale: evidentemente non ha creduto a quei testi e ritiene che possano essere elementi di valutazione da parte della procura. Adesso si tratta di capire i punti di vista di chi ha analizzato le carte». Teresi si ritrova a tenere la posizione dopo che Antonio Ingroia che da procuratore aggiunto che aveva avviato il processo è andato via: «Siamo amareggiati – ha detto – ma ci può stare, qualunque processo finisce con un'assoluzione o condanna». I rappresentanti dell'accusa non nascondono la delusione: «Rispetto la sentenza, ma non ne condivido alcun passaggio» dice Di Matteo e annuncia che ricorreranno in appello. Più articolato il ragionamento del capo della procura Francesco Messineo: «Nel dispositivo si legge che l'assoluzione è stata decisa perché il fatto non costituisce reato e non perché il fatto non sussiste. Quindi tutto fa pensare che Mori e Obinu siano stati assolti non perché non abbiano compiuto il reato ma perché il fatto non costituisce reato. Ecco perché ritengo che i fatti da noi contestati sono stati ritenuti dai giudici non infondati. In ogni caso aspettiamo la lettura delle motivazioni».
Per il legale di Mori, Basilio Milio, questa è una «sentenza che mette fine a cinque anni di linciaggio mediatico, di teoremi, di falsità e di calunnie. Adesso attendiamo di leggere le motivazioni per capire che tipo di refluenze questa sentenza potrà avere, se potrà inficiare anche il processo sulla trattativa Stato mafia, in corso in corte di assise. Noi speriamo di sì». Lapidario il commento di Mori: «C'è un giudice a Palermo». Da Obinu solo «no comment». Intanto in sottofondo la contestazione del movimento delle Agende Rosse.
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TRA ACCUSA E DIFESA
La sentenza attesa 5 anni
Poco più di cinque anni. Tanto è durato il processo di primo grado al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu, imputati di favoreggiamento aggravato dall'agevolazione di Cosa nostra e ieri assolti «perché il fatto non costituisce reato».
Il via nel giugno del 2008
Era il 18 giugno 2008 quando partì il procedimento. Mori, ex capo del Ros ed ex direttore del Servizio segreto civile, e Obinu sono accusati del mancato blitz di Mezzojuso: per la Dda di Palermo, si sarebbe potuto catturare Bernardo Provenzano già il 31 ottobre 1995, secondo quanto detto dal confidente Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio, piazzando un micidiale uno-due a Cosa nostra dopo l'arresto un paio d'anni prima di Totò Riina. Ma bisognerà attendere altri undici anni. E, in ogni caso, la sentenza di ieri ha assolto Mori e Obinu

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