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Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2013 alle ore 10:42.

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(Corbis)(Corbis)

Ancora non ha un nome nè un volto ma sappiamo già quanto costerà alle casse dello Stato il nuovo supercommissario che il Governo intende nominare per rafforzare il processo di spending. L'esperto, che verrà nominato con un Dpcm su proposta del ministro dell'Economia, potrà contare su un assegno massimo di 150mila euro quest'anno, 300mila nel 2014, altrettanti nel 2015 e 200mila nel 2016, ultimo anno di incarico. In totale quasi un milione di euro. Si tratta di somme lontane dal tetto massimo previsto per i manager di Stato, che equivale ai circa 340mila euro del primo presidente della Cassazione, ma non è previsto alcun divieto di cumulo con altre indennità derivanti da altri incarichi (per esempio se si tratta di un membro di qualche consiglio di amministrazione o un revisore dei conti) nè con la pensione. Il livello dell'assegno del futuro supercommissario - che è comunque superiore a quanto incassato dal suo predecessore, Enrico Bondi - è stato fissato con un emendamento presentato dai relatori al testo di conversione del "decreto del fare", all'esame della Camera e ormai giunto alle battute finali. Una scelta subito stigmatizzata in una nota da i deputati del M5S che, tra l'altro, avanzano anche qualche sospetto su chi potrebbe cadere la scelta: «certi paletti dell'emendamento sembrano fatti su misura per lui. Noi - scrivono - continuiamo a batterci, giorno e notte, per evitare trappole, giochi di
prestigio e "scherzetti" che gli illusionisti delle larghe intese mettono in atto per ipnotizzare e gabbare i cittadini». Il "lui" in questione potrebbe essere il capo-economista dell'Ocse, Piercarlo Padoan, che sarebbe molto quotato dal Pd, forse più dell'altra candidata, Lucrezia Reichlin, economista con un passato in Bce e che sarebbe la prescelta del presidente del Consiglio. Al momento non risulta, invece, una candidatura Pdl mentre sarebbe ormai fuori corsa l'ex ministro Piero Giarda, padre della spending review lanciata esattamente un anno fa con il decreto 95 e autore del (finora) unico documento ufficiale del Governo che raccoglie tutti gli elementi per una revisione della spesa pubblica.

Rinasce il Comitato interministeriale
L'emendamento votato dai relatori, che introduce un articolo 49bis nel ddl di conversione del decreto, istituisce anche un Comitato interministeriale, presieduto dal Presidente del Consiglio dei ministri e composto dal ministro dell'Economia e delle Finanze, dal ministro dell'Interno, dal ministro per i Rapporti con il Parlamento e il coordinamento dell'attività di Governo, dal ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione e dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Il Comitato è un po' la fotocopia dell'organismo che era già stato istituito l'anno scorso per garantire l'attività di «indirizzo e di coordinamento in materia di razionalizzazione e revisione della spesa». Nel testo approvato si aggiunge però il riferimento anche alla legge 196 del 2009 che prevedeva la razionalizzazione degli enti pubblici e delle società controllate direttamente o indirettamente dalle amministrazioni pubbliche, «con particolare riferimento alla revisione dei programmi di spesa e della disciplina dei trasferimenti alle imprese, alla razionalizzazione delle attività e dei servizi offerti, al ridimensionamento delle strutture, alla riduzione delle spese per acquisto di beni e servizi, all'ottimizzazione dell'uso degli immobili».

Il nodo delle società in house dopo lo slittamento dei tagli
Si tratterà di capire come questo riferimento normativo sarà coordinato con l'articolo 2 del decreto 95/2012 (la spending targata Giarda-Monti-Grilli) laddove si prevedeva lo scioglimento delle società controllate dalle pubbliche amministrazioni o l'esternalizzazione dei servizi da esse prestate. Una misura che gli enti titolari di queste società multiservizi (le quali devono aver fatturato fino al 90% delle loro prestazioni per l'ente controllante) erano tenuti ad attuare entro il 30 giugno 2013 con l'alienazione delle loro partecipazioni e la contestuale ri-assegnazione del servizio prestato per cinque anni a decorrere dal 1° gennaio 2014. I due termini sono stati ora spostati in avanti di sei mesi. In ballo, secondo dati di Unioncamere, ci sono circa 3.400 società e almeno 240mila dipendenti, il cui destino è incerto. Il dato numerico, però, è da prendere con le molle. Nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2012, la Corte dei conti individua 2.444 società titolari di affidamenti diretti, che rappresenterebbero il 78% delle società partecipate dagli enti locali. Un'altra ricerca sempre di Unioncamere del 2011, su dati 2009, censisce a sua volta una galassia complessiva di 5512 società partecipate, di cui 3601 sono controllate. Numeri ballerini, insomma, ma in costante crescita da diversi anni. Forse il supercommissario dovrebbe partire proprio da qui, magari con una prima anagrafe degli enti e delle società che operano a livello regionale. Per poi decidere dove e come tagliare.

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