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Questo articolo è stato pubblicato il 23 luglio 2013 alle ore 06:42.

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Come è noto, ogni giorno ha la sua pena. E bisogna ammettere che le pene della grande coalizione all'italiana sono quasi più numerose dei giorni. In attesa di ascoltare domani il ministro degli Esteri Bonino al Senato, ci si domanda se la vicenda del Kazakistan sia davvero chiusa. Si direbbe di no, al di là della strenua difesa di Alfano pronunciata l'altro giorno dal premier Letta. La stessa titolare della Farnesina parla di «punti oscuri che vanno chiariti».
Difficile immaginare che Emma Bonino si spinga a mettere in difficoltà la sua maggioranza, specie dopo le parole di Letta e dello stesso capo dello Stato. Eppure... eppure qualcosa dovrà dire dopo aver accennato a residue zone d'ombra. Una frase che tradisce la profonda irritazione per il comportamento del Viminale. E lascia intendere anche le riserve del ministero degli Esteri sull'ipotesi di espellere subito l'ambasciatore kazako, il che comporterebbe un rischio di ritorsioni. Insomma, ci sono ancora cose da capire sul fronte kazako.
La verità è che il cerotto parlamentare sulla ferita è talmente precario che basta davvero poco per strapparlo. Mai come in questo caso ci si affida al famoso «generale agosto» nella speranza che la pausa estiva stemperi le tensioni. Ma non è detto che stavolta accada, per via della dimensione mediatica del caso Alfano-Kazakistan. Nuove carte possono sempre saltar fuori: magari come strumento di plausibili vendette trasversali. In ogni caso c'è un fronte abbastanza ampio che considera l'affare tutt'altro che archiviato. Di Emma Bonino si è detto, ma prima di lei si sono pronunciati in tal senso Zanda, Epifani e naturalmente Renzi, riflettendo la profonda sofferenza con cui la base del Pd, o una parte di essa, vive l'epilogo della vicenda kazaka. Non tutti, certo, vogliono la crisi del governo. Tuttavia non condividono la "realpolitik" di Letta e la necessità di fare buon viso a cattivo gioco in nome della stabilità.
Quindi c'è un evidente motivo di disagio all'interno del Pd, ben al di là della contesa sulle regole e sulla data del congresso. Ma una frattura esiste - e non da oggi - anche a destra: quanto meno una profonda differenza di toni e di argomenti fra l'ala "governativa" e il gruppo degli intransigenti. Da un lato i Quagliariello e i Lupi, ad esempio, leali al presidente del Consiglio. Dall'altro i Brunetta e i Gasparri che arrivano a proporre un "rimpasto" per mettere fuori gioco Saccomanni e «riequilibrare» il numero dei ministri.
Come tutti sanno, non esiste una parola più invisa all'opinione pubblica di "rimpasto". Ma la proposta Brunetta-Gasparri non va presa alla lettera: è piuttosto un modo per avere in mano una carta da giocare nel momento in cui si nota che a sinistra il caso Alfano non è stato archiviato. Il risultato però è una maggioranza in stato di perenne nervosismo. Come accade sulla legge contro l'omofobia e sui cosiddetti temi etici. O come sta avvenendo intorno alla legge sul finanziamento dei partiti.
C'è bisogno di un costante, faticoso lavoro di mediazione su ogni singolo punto dell'agenda. Non solo le questioni economiche prioritarie, ma tutti i punti che richiedono un'iniziativa del governo. E c'è una dialettica aspra all'interno dei due partiti che complica lo sforzo dei mediatori. I "Letta boys" di destra e di sinistra dentro la coalizione sono messi a dura prova ogni giorno.
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