Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 04 agosto 2013 alle ore 08:28.

My24

di Ugo Tramballi In mezzo al grande caos, tra i feriti delle manifestazioni del venerdì e della nuova mobilitazione "da un milione di uomini" convocata già oggi, la Banca centrale ha deciso di ridurre di 50 punti base il tasso d'interesse. Non succedeva da quattro anni. Un tentativo di muovere un po' l'economia, un messaggio di stabilità in una bottiglia lasciata in balia di un Egitto in tempesta.
Parlando al Washington Post, anche Mohamed el-Baradei insiste sull'urgenza di porre termine al confronto tra Fratelli musulmani e gli altri, che paralizza il Paese dalla fine di giugno. «Abbiamo il denaro venuto dal Golfo - dice il Nobel e nuovo vicepresidente egiziano, riferendosi ai notevoli aiuti degli arabi del petrolio -. Non vogliamo il credito del Fondo monetario internazionale per i 4 miliardi (in realtà sono quasi 5 quelli offerti e per i quali ora il negoziato è interrotto, ndr). Abbiamo bisogno del Fondo soprattutto perché certifichi un'economia sana, necessaria per attrarre gli investimenti internazionali». Secondo Baradei riaprire l'Egitto al mondo, turismo compreso, è una necessità assoluta «non appena le cose incominceranno a stabilizzarsi».
Il problema è che di questo auspicato consolidamento della pace e della sicurezza continuano a non esserci segni. Al contrario, si moltiplicano quelli di un aperto scontro civile. L'Egitto è congelato al 30 giugno, quando ci furono le prime manifestazioni oceaniche contro Mohamed Morsi, il presidente eletto dei Fratelli musulmani. L'unico cambiamento significativo ma non decisivo è che ora a manifestare sono i sostenitori dell'Islam politico: non tanti come gli altri ma più determinati nella continuità e l'ostinazione della protesta.
Dopo un mese, i Fratelli musulmani non danno segni di cedimento. Alle offerte di dialogo, rispondono con rilanci inaccettabili: nessuna trattativa fino a che Morsi non sarà liberato e reinsediato alla presidenza. Ieri il portavoce di una delle formazioni della galassia islamista alleata alla fratellanza ha aperto un apparente spiraglio: disposti a trattare la fine delle proteste e la road map che deve definire i successivi passaggi fino alle nuove elezioni. Ma non con i militari. Tutti sanno che è il generale al-Sisi, ministro della Difesa, comandante in capo delle forze armate e uomo più potente dell'Egitto, a decidere alle spalle del governo di civili che lui stesso ha scelto.
In attesa della stabilità invocata da el-Baradei, la principale attività economica al Cairo sono le scommesse su quando i militari e la polizia sgombereranno i quartieri occupati dai manifestanti: se prima o dopo la fine del mese del digiuno di Ramadan, l'8 agosto; durante o dopo i cinque giorni della festività successiva dell'Eid, la più importante dell'Islam. Americani ed europei stanno cercando di mediare una soluzione che le due parti rifiutano. Per loro è ammissibile solo la resa dell'altro. Per questo gli occidentali sono così ondivaghi nelle loro dichiarazioni: sostengono, come ha fatto John Kerry due giorni fa, che i militari «hanno ripristinato la democrazia»; ma li invocano a rispettare il diritto di manifestare, come ha fatto ancora il segretario di Stato americano il giorno successivo. Tutti sanno che indietro, a Morsi presidente, non si può più tornare; e tutti che sgombrare le piazze significa provocare un massacro peggiore di quelli già compiuti.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Shopping24

Dai nostri archivi