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Questo articolo è stato pubblicato il 10 agosto 2013 alle ore 08:38.

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di Alberto Negri Per gli Stati Uniti il Medio Oriente resta un campo minato perché dopo l'11 settembre l'America ha mancato di una strategia convincente. L'obiettivo di difendere il territorio nazionale da attacchi esterni in grande stile sembra sia stato raggiunto anche se al prezzo di una guerra in Afghanistan dall'esito contrastante e di un altro conflitto, del tutto controproducente, in Iraq.
Nessuno di questi due conflitti è finito, nessuno di questi territori è al sicuro ma si teme, al contrario, che precipeteranno ancora nel girone infernale di un'altra guerra civile. Tutti i giorni dall'Afghanistan, dal Pakistan, dall'Iraq - oltre che ovviamente dalla Siria - arrivano notizie di attentati che quando non coinvolgono degli occidentali vengono liquidate in poche righe.
Gli Stati Uniti sono nel mirino, nonostante le operazioni dell'intelligence e centinaia di attacchi aerei con i droni, efficaci nel decapitare qualche gruppo islamico ma che non rappresentano una soluzione politica e strategica alla destabilizzazione crescente che travolge il mondo musulmano, dal Mediterraneo all'Asia centrale, aree del mondo remote e forse prive di interesse per il grande pubblico degli States, saturato negli scorsi anni dalle notizie irachene e afghane.
Ma l'obiettivo dichiarato di Obama era riportare a casa i soldati, non esportare la democrazia nel mondo musulmano, il tragico equivoco di George Bush junior. E ora anche la ripresa dei negoziati israeliano-palestinesi, voluta dalla Casa Bianca, somiglia più a un gioco di ruolo che ha una reale trattativa.
Se gli Stati Uniti chiudono le ambasciate e la presenza americana in Medio Oriente è ormai virtuale - tranne naturalmente le basi militari nel Golfo - è certamente per l'allarme terrorismo ma anche perché a Washington questa area del mondo appare sempre meno attraente per i suoi interessi strategici e petroliferi, al punto di delegare decisioni importanti ad attori regionali inadeguati e incapaci. E per noi che abbiamo a che fare con i problemi della Sponda Sud non è una buonissima notizia: basta vedere quanto accade in Libia e in Tunisia.
Il caso della Siria e della contro-primavera araba è emblematico. La Turchia di Erdogan insieme all'Arabia Saudita e al mini-stato del Qatar hanno fatto credere che Assad sarebbe caduto in pochi mesi. Uno dei più clamorosi errori di calcolo degli ultimi anni, persino peggiore del disastro iracheno. Il vice capo della Cia Morrell afferma adesso che la Siria si è trasformata nel santuario dei gruppi islamici più pericolosi e di Al Qaida. Ma l'esperienza in Iraq a che cosa è servita?
Neppure gli errori siriani sono stati di insegnamento. Obama ha liquidato l'ambasciatrice al Cairo, Anne Patterson, perché si è fatta sorprendere dagli eventi: mentre teneva rapporti intensi con i Fratelli Musulmani i militari preparavano il colpo di stato per cacciarli.
Per rimediare a questa valutazione sbagliata gli Stati Uniti hanno fatto un altro errore nominando al suo posto l'ex ambasciatore in Siria Robert Ford, celebre per la sua visita ad Hama il 7 luglio 2011, insieme al collega francese Eric Chevalier, per sostenere la rivolta contro il regime di Damasco. La nomina di Ford non poteva che scatenare l'ira dei militari egiziani ostili a un ambasciatore che si è schierato a favore degli islamisti. Non è certo questo il signore che può convincere alla moderazione i generali sradicatori dei Fratelli Musulmani.
Certo criticare gli Stati Uniti in Medio Oriente dopo i disastri che hanno combinato è facile. Siamo davanti a una superpotenza indebitata che ha assai ridimensionato le sue priorità regionali: Israele, lotta al terrorismo (ma non alle sue cause), forniture energetiche (per altro sempre meno strategiche). Chiedamoci però cosa facciamo noi europei: una risposta alla disperazione dei siriani, alle paure di libanesi, all'endemico dramma economico e sociale dell'Egitto e della sponda Sud, un giorno dovremo pur darla. Magari rinunciando a citare periodicamente dei piani Marshall - segretario di Stato americano salvatore dell'Europa postbellica - che restano soltanto vane promesse.
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