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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2013 alle ore 08:23.

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Devono essere poche, in Russia, le persone con il coraggio di contraddire Vladimir Putin. Tra loro Aleksej Kudrin, che dopo aver lasciato il governo perché non ne condivideva la linea espansiva, lo scorso aprile è apparso alla maratona annuale in cui Putin soddisfa in tv gli interrogativi del pubblico. È dunque di fronte a mezza Russia che Kudrin ha smentito il presidente, intento ad attribuire alla crisi globale la preoccupante frenata dell'economia: «Le vere ragioni - gli ha obiettato il suo ex ministro delle Finanze - sono interne».
La Russia, ha spiegato Kudrin, ha bisogno di riforme per rilanciare gli investimenti e aumentare la competitività. E gli imprenditori hanno bisogno di essere rassicurati sul futuro politico del Paese: altra dichiarazione temeraria di Kudrin, che nei giorni delle proteste simpatizzava con i manifestanti. «Sei stato il miglior ministro delle Finanze possibile - gli ha risposto Putin - ma non saresti il miglior ministro per gli Affari sociali».
Fin dai primi giorni al Cremlino, la priorità per Putin è stata la stabilità del Paese e del suo regno: il reddito delle famiglie e le pensioni pagate in tempo, l'aumento dei salari più che della produttività. Ma adesso che l'era dei guadagni del petrolio lascia il passo al tempo della crisi, Putin ammette: «Non esiste una bacchetta magica che possa cambiare la situazione di colpo». Eppure, la diagnosi degli economisti è chiara, e ricalca le parole di Kudrin: contro la stagnazione servono riforme. Bacchetta magica o no, non è questa la direzione in cui il presidente russo intende andare.
Nel primo trimestre, vedendo assottigliarsi la crescita fino a un +1,6%, Andrej Belousov - allora ministro dell'Economia - aveva evocato per primo la parola "recessione". La Russia, diceva, «ha 5 anni di tempo per realizzare riforme strutturali prima che gli equilibri energetici globali cambino, innescando un calo del 20-30% dei prezzi del petrolio». Venerdì scorso, quando il secondo trimestre ha sorpreso con un ancor più deludente aumento del Pil dell'1,2%, attribuito soprattutto al rallentamento dei consumi, l'allarme è tornato a suonare: «La Russia è sull'orlo della recessione», titola Vedomosti.
Il passato non ha le risposte giuste. La grande crisi del 1998 - default e svalutazione del rublo - venne superata aiutando la produzione interna a sostituirsi ai beni importati. E nel 2008 furono le risorse accumulate grazie a gas e petrolio a consentire allo Stato di sostenere rublo, banche e imprese. Oggi le prospettive dei mercati dell'energia non consentono più alla Russia di appoggiarsi solo a queste risorse; e la spinta nata dalla trasformazione dell'economia centralizzata sovietica ha bisogno di un nuovo modello. Ivan Tchakarov, chief economist di Renaissance Capital, la chiama «la trappola del reddito medio»: raggiunto un determinato livello di benessere, per evitare il rallentamento della crescita un Paese deve progredire rapidamente sul fronte di istituzioni, infrastrutture, istruzione, tecnologia, per costruire un'economia basata sulla conoscenza.
I buoni consigli a Putin non mancano, ma il presidente - diffidente verso la liberalizzazione politica, preoccupato di creare fratture nell'élite che lo sostiene - sembra incapace «di tradurre l'impegno per una modernizzazione economica in politiche che cambino realmente la situazione sul terreno», spiega Peter Rutland, professore di Politiche governative alla Wesleyan University. Putin si appoggia all'apparato, che racchiude in sé i semi della burocrazia e della corruzione; preferisce parlare di stimoli all'economia più che di riforme e ridistribuzione delle risorse, di investimenti guidati dallo Stato attraverso i suoi oligarchi più che di libertà di impresa.
In ambito monetario, lo spazio di manovra della Banca centrale per rilanciare l'economia è frenato dall'inflazione - ancora al 6,5%. Sul piano fiscale, il programma approvato a luglio dal Governo è centrato sugli investimenti annunciati da Putin al Forum di Pietroburgo: 13,6 miliardi di dollari di grossi progetti, un nuovo anello stradale attorno a Mosca, l'alta velocità tra la capitale e Kazan, la modernizzazione della Transiberiana. «Uno sforzo per evitare di scivolare nella stagnazione - è il commento di Alexander Morozov, chief economist di Hsbc Russia - ma senza affrontare i problemi strutturali». Tanto più che il piano prevede di attingere agli 86,5 miliardi del Fondo per il welfare costruito - opera di Kudrin - con le entrate del petrolio, ma destinato a sostenere il sistema previdenziale. «Avrei preferito veder finanziare i progetti vendendo bond sui mercati», protesta l'ex ministro. Le grandi opere faraoniche del resto - come quelle che stanno trasformando Soci, che ospiterà l'anno prossimo le Olimpiadi più costose della storia - stridono in una Russia che ancora non ha saputo costruire un'autostrada lungo i 700 km tra Mosca e Pietroburgo.
«Migliorare il clima per gli investimenti non è facile come buttare soldi nella costruzione di un ponte sul nulla - scriveva sei mesi fa il Moscow Times - ma è il miglioramento del clima per gli investimenti che ha un impatto significativo sulla crescita». Sfortunatamente, «nel 2012 la Russia non ha approvato alcuna legge in questo senso, con la Duma occupata a imporre restrizioni su internet e ong, a comminare sanzioni contro chi manifesta e a decidere ritorsioni contro gli Stati Uniti. Non c'è da stupirsi se gli investitori preferiscono mettere i loro soldi altrove». L'autore dell'articolo è Serghej Guriev, all'epoca dirigeva l'Alta scuola di economia di Mosca. È finito nel mirino degli inquirenti per aver criticato le condanne contro Mikhail Khodorkovskij, in carcere dal 2003 per frode fiscale. Il pezzo sul Moscow Times è una delle ultime cose che Guriev ha scritto in Russia, prima di fuggire a Parigi.

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