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Questo articolo è stato pubblicato il 13 agosto 2013 alle ore 06:42.

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«L'uomo delle forze armate conferma a Vostra eccellenza la loro assoluta lealtà all'Egitto e al suo popolo, compatte dietro la sua leadership, guardiani delle responsabilità patriottiche». Dopo aver letto il telegramma che il generale aveva mandato al neo-presidente Morsi, il portavoce dei Fratelli musulmani Gamal Hishmat, aggiunse convinto che Sisi era «un patriota al cento per cento».
È passato poco più un anno e oggi è probabile che Hishmat sia con Morsi fra le centinaia di islamisti che Sisi ha fatto chiudere in galera. Forse la Storia ha un nuovo Bruto da aggiungere alla lista di coloro che hanno tradito Cesare. E, come per la gran parte dei suoi predecessori in questo ruolo, non sarà mai del tutto chiaro se Abdel Fattah al-Sisi, 59 anni a novembre, abbia abbattuto il suo Cesare per salvare la Patria e la repubblica da una dittatura religiosa o solo per prenderne il posto.
A Mohamed Morsi, al-Sisi deve la parte più importante della sua carriera. Appena diventato primo presidente realmente eletto nella storia d'Egitto, l'ex candidato della Fratellanza lo aveva elevato al grado di generale, nominato capo di stato maggiore delle forze armate, ministro della Difesa e della Produzione militare: cioè controllore e amministratore del forziere dal contenuto in gran parte segreto, dei militari. In cambio di tanta fiducia, di lì a qualche settimana al-Sisi avrebbe fatto fuori tutta la vecchia guardia delle forze armate, dalla quale aveva pure avuto tanto. Il generale Tantawi, il capo delle forze armate e del Consiglio supremo che aveva governato l'Egitto per più di un anno da piazza Tahrir all'avvento di Morsi, gli aveva affidato il sensibile comando dei servizi segreti militari; poi lo aveva cooptato nel Consiglio, come membro più giovane.
Nell'ultimo mese in Egitto è cambiato di nuovo tutto: chi era al potere è in galera e chi era all'opposizione ora comanda. Solo Sisi ha mantenuto tutte le cariche, aggiungendo quella di vice-presidente del governo nominalmente civile che lui stesso ha creato. È questa ultima qualifica, apparentemente non necessaria, che ha alimentato i sospetti sull'uomo più potente del Paese, il cui volto appare nei manifesti dei sostenitori accanto a quello di Nasser. Quello che sta crescendo attorno a lui, fra la gente e sulla stampa, si chiama culto della personalità. Un paio di settimane fa il portavoce militare ha negato che Sisi voglia diventare presidente. Immediatamente dopo ha ricordato che in ogni caso nulla gli impedirebbe di candidarsi.
Golpe o colpo di mano popolare, Sisi lo ha fatto per imporre una guida civile o diventare lui presidente, replicando con qualche modernità il potere che fu di Nasser, Sadat e Mubarak? E il suo obiettivo è uno Stato laico, avendo estromesso i Fratelli musulmani, o militar-islamico?
La definizione di "laico" va usata con scrupolo nel mondo arabo. Le società civili, quella egiziana più delle altre, sono religiosamente conservatrici. Ma anche fra i musulmani c'è una concreta differenza fra Stato laico e islamico. In un articolo su "Foreign Affairs", una rivista tutt'altro che conservatrice e islamofobica, lo studioso Robert Springborg avanza una possibilità. «A giudicare dalle idee di governo che propone, Sisi potrebbe vedere se stesso non tanto come custode del futuro democratico dell'Egitto, quanto come una versione egiziana di Muhammed Zia ul-Haq, il generale pakistano che prese il potere nel 1977, islamizzando lo Stato e la società».
Dunque non un modello algerino e nemmeno turco ma pakistano. La tesi di Springborg non si fonda tanto sulla nota religiosità di Sisi: è un devoto musulmano, quando parla cita regolarmente il Corano, sua moglie e una delle due figlie portano il velo. L'altra non indossa l'hijab che copre la testa, ma il niqab ultra-ortodosso che nasconde anche il volto. Né conta il periodo che Sisi ha trascorso in Arabia Saudita come addetto militare egiziano. Springborg si riferisce soprattutto a "Democrazia in Medio Oriente", la tesi che Sisi scrisse nel 2006, alla fine del suo corso alla scuola di guerra dell'esercito americano in Virginia. Da quando Anwar Sadat abbandonò l'Urss, cambiando il sistema delle alleanze egiziane, gli ufficiali più promettenti vanno a studiare negli Usa. «Per avere successo in Medio Oriente», scriveva Sisi, la democrazia deve mostrare «rispetto per la natura religiosa della cultura». «La democrazia non può essere capita senza una comprensione del concetto del Califfato», aggiungeva, riferendosi all'età iniziale nella quale l'Islam politico fu governato dal Profeta e dai suoi immediati successori. Qualsiasi governo arabo, concludeva, deve includere gli islamisti, «anche i più radicali».
Un testo del 2006 che tra l'altro sarebbe stato accuratamente letto dagli istruttori americani, non dimostra che Abdel Fattah al-Sisi pensasse da anni alla conquista del potere in Egitto, che il golpe del mese scorso fosse orchestrato per questo né che la sua ambizione sia d'imporre un regime islamico-militarista. Ma per un militare, patriota e devoto musulmano, il modo maldestro con il quale Morsi stava facendo uso del governo e dell'Islam, deve essere stata una tentazione irresistibile.
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