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Questo articolo è stato pubblicato il 15 agosto 2013 alle ore 06:39.

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Una città di 20 milioni di abitanti deserta e silenziosa fa paura. Quasi più degli scontri che per tutta la giornata la avevano infiammata. Con il coprifuoco notturno il Governo ha imposto lo stato di emergenza, riportando l'Egitto al suo passato recente, ai tempi di Mubarak. Tutto quello che c'è stato dalla sua caduta a oggi - piazza Tahrir e le elezioni - è come non fosse mai accaduto.
Il Paese è nel caos ed è sempre diviso. Scontri al Cairo, Alessandria, Suez e in altre città. Anche sul bilancio delle vittime il Governo guidato dai militari e i Fratelli musulmani sono radicalmente divisi. Secondo i primi ieri sera i morti erano 149; i secondi ne contavano duemila. Fra le vittime ci sono anche due giornalisti: un cameraman inglese di Sky News e un giovane reporter di Gulf News, degli Emirati. Grave l'allarme per le chiese cristiane: secondo il portavoce della Chiesa Cattolica egiziana, padre Rafic Greiche, i Fratelli musulmani avrebbero attaccato 20 luoghi di culto, per lo più coopti.
Ignorando i contrasti nell'Esecutivo fra coloro che volevano un'azione radicale e definitiva e chi insisteva nel dialogo, ieri mattina le forze armate hanno deciso di sgomberare i due presidi che la fratellanza manteneva dal 3 di luglio, quando Mohamed Morsi era stato arrestato. In piazza Nahda, davanti all'Università del Cairo, a Ovest del Nilo, l'operazione è stata violenta e rapida. Davanti alla moschea di Rabaa al-Adawiya, nel quartiere di Nasr City la resistenza è stata più dura. I Fratelli musulmani ancora la controllano in massa.
Il portavoce del Governo parla di azione contro i terroristi e quelli della fratellanza di terrorismo di Stato. In mezzo ci sono gli egiziani. Dalla parte degli islamisti molti hanno lasciato le piazze e sono tornati a casa; da quella del Governo c'è chi ha tratto le conseguenze. Primo fra tutti il vicepresidente Mohamed ElBaradei che ha deciso di rendere onore al Nobel per la pace ricevuto nel 2005. Nelle passate settimane aveva promosso la mediazione di Stati Uniti e Ue e questo non era piaciuto ai militari che lo avevano isolato. Dopo l'inizio della battaglia e i primi bilanci delle vittime, ElBaradei ha dato le dimissioni. «I beneficiari di quello che è accaduto oggi sono quelli che invocano la violenza, il terrorismo e i gruppi più estremi», scrive ElBaradei nella lettera di dimissioni al presidente Adly Mansour. Anche i due vice-premier Ziad Bahaa El-Din e Hassan Eissa, dello stesso fronte laico, stanno meditando le dimissioni.
Intero o a pezzi, intanto il Governo ha proclamato lo stato d'emergenza: sarà prolungato per 30 giorni, come un Ramadan, nel digiuno delle libertà civili che gli egiziani avevano conquistato in questi ultimi due anni e mezzo. I militari possono sostituirsi alla polizia per garantire l'ordine pubblico e ai magistrati civili per imporre la giustizia. Qualsiasi loro azione non violerà più la legge, congelata per un mese.
«C'erano soluzioni accettabili e proposte per iniziare quello che ci avrebbe portato a un consenso nazionale», scrive ancora ElBaradei nella sua lettera a Mansour. Lo sanno anche coloro che nelle settimane passate avevano partecipato alla sua proposta di mediazione e ora sono preoccupati. Come il segretario dell'Onu Ban Ki-moon. Molto dura la reazione di Recep Erdogan, il primo ministro turco che è sempre stato dalla parte dei Fratelli musulmani: ha invocato l'intervento diretto delle Nazioni Unite e della Lega araba, il cui quartier generale è al Cairo, in piazza Tahrir. Ma della ripresa di un negoziato egiziano o internazionale non ci sono i segni. Nel buio silenzio del Cairo la gente si aspetta un'altra alba di sangue. Senza una mediazione alternativa, ai militari non resta che fare ciò che vogliono di più: concludere il lavoro anche davanti alla moschea di Rabaa al-Adawiya e riportare il loro ordine sulla città e sull'intero Paese.
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