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Questo articolo è stato pubblicato il 21 agosto 2013 alle ore 06:39.

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Walter
Riolfi Se tutto questo turbamento dei mercati fosse davvero dipeso dalla presunta, incipiente fine del quantitative easing americano, immaginiamo cosa succederebbe se un inopinato rialzo dell'inflazione costringesse la Fed ad aumentare i tassi d'interesse. C'è il dubbio che tutta questa enfasi sulla possibile riduzione della droga, che da 4 anni somministrano ai mercati le banche centrali, nasconda preoccupazioni più serie: sulle valutazioni un po' troppo generose espresse dai titoli di Wall Street e sulla crescente instabilità che stanno mostrando l'economia e la finanza dei Paesi emergenti.
Può darsi che tutta questa enfasi sia montata dai commenti degli operatori e della stampa specializzata e che non sia del tutto condivisa dai grandi investitori: i quali, non sapendo in questo momento come muoversi, lasciano il campo alla speculazione dal breve o brevissimo orizzonte. Tuttavia i sintomi di una dipendenza dalla droga della Fed sono evidenti, come suggerisce la reazione di alcuni operatori che si chiedono «per quale ragione» il rendimento del Treasury Usa sia «così alto con i tassi ufficiali a zero e con l'inflazione quasi a zero». Ma al 2,84% il decennale è ancora oltremodo caro, considerando un Pil che cresce attorno al 2% e un'inflazione che, a dispetto delle semplificazioni degli operatori, è salita dell'1,96% (1,7% quella core) negli ultimi 12 mesi.
Ed ecco che quell'enfasi si traduce in una dichiarata, trepida attesa per le minute della Fed che saranno pubblicate in serata e che probabilmente non chiariranno un bel nulla. E allora si aspetteranno le parole di qualche membro della Fed verso fine settimana, visto che un Ben Bernanke a fine mandato non brilla per loquacità. Il sospetto è che sia la stessa Fed ad essere condizionata dall'abbondante droga che ha somministrato e che, davanti a un rendimento del trentennale al 3,9% (era al 2,81% a maggio), si preoccupi per il costo dei mutui casa (oltre il 5%) e per gli interessi che gravano sui prestiti contratti dalle indebitate famiglie americane. Infatti, un dollaro così debole verso l'euro suggerirebbe che la stagione del Qe non sia conclusa. Se la banca centrale vagheggia una exit strategy alla propria politica monetaria ultraespansiva, un mercato quanto meno viziato continua a pretendere la droga del quantitative easing, pur immaginando una crescita economica persino superiore al 3% del Pil.
Il guaio è che, come sempre, a farne le spese sono soprattutto gli altri mercati: le borse europee cresciute da inizio anno dell'8%, appena la metà dell'S&P, quella italiana salita del 4% e in particolare i mercati emergenti le cui azioni sono sotto del 12%, i cui bond sono pesantemente venduti e le cui valute sono in molti casi ai minimi decennali sul dollaro. È proprio in questi ultimi Paesi che le politiche monetarie non convenzionali hanno creato i maggiori danni. In 4 anni, ossia da quando Bernanke ha iniziato a inondare i mercati di artefatta liquidità, sono finiti sulle attività dei Paesi emergenti 3.900 miliardi di dollari. Adesso tutto quel denaro, gonfiato anche dalle operazioni di carry trade, sta precipitosamente uscendo e, si dice, a vantaggio dei Paesi sviluppati. A giudicare dal comportamento delle borse (e dei titoli di Stato) non si direbbe in Eurozona: e, a giudicare dal continuo deprezzamento del dollaro rispetto all'euro, nemmeno negli Stati Uniti.
Certo è che l' euro spinto fino a 1,345, ai massimi da oltre 6 mesi, è proprio quello che meno potevano augurarsi le imprese europee, mentre un'incipiente crisi economica e finanziaria nei Paesi emergenti (la Tailandia è in recessione) potrebbe pesare ulteriormente sulla bilancia commerciale dell'Eurozona.
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