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Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2013 alle ore 06:44.

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Delle sorti di Silvio Berlusconi a Palazzo Madama bisognerà decidere solo e soltanto in punto di diritto, s'insiste nel Pdl. Perciò sono giorni, questi, di frenetica e laboriosa attività di studio per comporre il quadro delle argomentazioni giuridiche capace di disinnescare l'ordigno sotto lo scranno senatoriale del Cavaliere.
Da due pareri pro veritate, già sul tavolo dell'ex premier, comincia a comprendersi quale potrebbe essere la linea quando si aprirà la discussione in Giunta delle elezioni. Il primo porta la firma di Nicolò Zanon, Beniamino Caravita di Toritto e Giuseppe de Vergottini. Fra i profili critici sollevati dai tre costituzionalisti di area liberale - vicini alla Fondazione Magna Carta e, per inciso, membri indicati dal governo nella commissione dei saggi sulle riforme costituzionali nominata a giugno - innanzitutto si affronta la questione del dover prendere atto o meno, "notarilmente" si direbbe, della sentenza dando corso alla perdita del seggio. Nel testo redatto si legge che la dottrina che si è occupata delle cause sopravvenute d'ineleggibilità alla carica di deputato e senatore, considera acquisito che la condanna penale definitiva, «pur se accompagnata da una pena accessoria quale l'interdizione perpetua da pubblici uffici, non determina, di per sé, alcun effetto automatico di decadenza dal mandato». E la prassi parlamentare, nei casi in cui è stata sollecitata a svilupparsi, «ha confermato questo assunto». Insomma la norma contenuta nell'articolo 66 della Costituzione implica una valutazione «discrezionale» e «non già una mera applicazione». Si arriva dritti così al tema cardine, sintetizzabile un po' grossolanamente nella formula: nel decidere, comunque fa, la Giunta "sbaglia". «O la deliberazione, come è stato sostenuto da taluni, ha da ridursi ad una formale presa d'atto di quanto stabilito dal potere giudiziario con sentenza passata in giudicato, sicché lo spazio di determinazione della Giunta sarebbe del tutto escluso e sarebbe esclusa, parimenti, ogni valutazione sovrana delle Camere». E allora, in palese violazione dello stesso articolo 66 della Costituzione l'articolo della legge Severino provocherebbe un'evidente lesione di una delle prerogative costituzionali del ramo del Parlamento chiamato a esprimersi. «Oppure la deliberazione dovrebbe considerarsi da assumere in piena libertà politica, sia dalla Giunta che dalla Camera d'appartenenza». Ma anche questa interpretazione non salverebbe la disposizione in esame. «Infatti, se il voto della Camera è un voto politico (o meglio, una valutazione sovrana che parte dall'esame di alcuni presupposti di fatto), impregiudicato dal diritto, è facile immaginare che contro tale delibera potrebbe essere sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, per avere la Camera d'appartenenza, in sede di giurisdizione domestica, ignorato una sentenza di condanna penale, dalla quale discenderebbe, in tesi, l'obbligo di deliberare l'interruzione del mandato».
Alcuni osservatori hanno inoltre posto dubbi in relazione al principio di irretroattività della legge penale stabilito nella Carta. Su di esso si sofferma, nell'altro parere pro veritate a beneficio del Pdl, Giorgio Spangher, ordinario di Procedura penale all'Università di Roma ed ex membro laico del Csm in quota centro-destra. Il punto qui è: la norma che sancisce la decadenza è o non è una pena accessoria di tipo penalistico? Leggendo gli argomenti di Spangher sembrerebbe di sì. Semplicemente perché la natura sanzionatoria penalistica della Severino si desume dal fatto che c'è, nella stessa legge, un riferimento all'istituto della «riabilitazione», che è causa estinitiva della pena prevista e disciplinata dal Codice penale. E nessuno, nemmeno il Cavaliere, dunque, «può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso».
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