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Questo articolo è stato pubblicato il 08 settembre 2013 alle ore 08:35.

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La democrazia è come il sesso. Non si insegna a scuola. Milioni di uomini e di donne sono lasciati soli ad apprendere quali sono le sue regole. Certo, ci sono i partiti. Ma nemmeno loro hanno interesse o la capacità di svolgere questo compito. Quando va bene parlano della costituzione e dei suoi valori. Ma una cosa sono i valori su cui si fonda un regime democratico e una altra cosa è il suo funzionamento. E così la democrazia si impara per strada nelle discussioni tra gli amici, dalla lettura dei giornali, dalla Tv, da internet e soprattutto dall'esito delle elezioni. Elezione dopo elezione, sconfitta dopo sconfitta la gente arriva a capire che per vincere occorre rispettare certe regole. Primo, devi andare a votare anche quando il tuo candidato preferito non è in campo. Secondo, devi avere più voti degli altri e se questi voti non ce li hai devi andare a cercarli anche a costo di qualche compromesso. Sembrano regole banali ma non lo sono affatto. Questo è quello che hanno capito milioni di elettori di sinistra la sera delle ultime elezioni, il 25 febbraio 2013. Quella sera è morto il vecchio Pd. E si è spianata la strada della segreteria per Matteo Renzi.
È un film già visto. Le regole della democrazia non valgono solo in Italia. Mutatis mutandis, in Gran Bretagna è successa la stessa cosa tra il 1979 e il 1997. Il vecchio Labour è arrivato al capolinea il 9 Aprile 1992 quando non riuscì a vincere nemmeno dopo l'uscita di scena della Thatcher. Era la quarta sconfitta consecutiva. Finalmente i suoi militanti ed elettori hanno fatto i conti con la realtà. Hanno capito che erano una minoranza che per tornare a vincere doveva allargare i suoi confini rinnovandosi. Questo è stato il ruolo di Blair. Detta così sembra facile ma non lo è stato per niente. Ci sono voluti quasi venti anni per apprendere la lezione.
Nel corso degli ultimi venti anni la sinistra italiana ha vinto solo una volta, nel 1996, e solo perché la destra era divisa. Nel 2001 e nel 2008 ha perso nettamente. Nel 2006 e nel 2013 non ha vinto. Nel frattempo ha continuato a perdere voti. Alle ultime elezioni la coalizione di Bersani si è fermata al 29%, meno di Veltroni e addirittura di Occhetto (si veda la tabella). Questa è la realtà nuda e cruda. Eppure ci sono voluti 20 anni per capire che la sinistra, così come si è organizzata dal 1989 a oggi, non ha i voti per vincere, se la destra non le dà una mano.
Per più di due decenni dentro il Pd ci si è cullati nella illusione che si potesse vincere senza cambiare, o cambiando il minimo indispensabile. Questa illusione è stata violentemente cancellata dal disastro del 25 febbraio. La sera di quel lunedì milioni di persone sono rimaste con il fiato sospeso e le dita incrociate mentre assistevano increduli alla rimonta di Berlusconi nello spoglio dei voti alla Camera. Alla fine il Cavaliere non ce l'ha fatta a superare Bersani. Ma solo per 125.000 voti. Quella che doveva essere per la sinistra una vittoria netta si è ridotta a un misero vantaggio dello 0,4% dei voti. La stessa cosa era successa sette anni prima con Prodi.
Quel restare incollati alla Tv per ore a vedere quel piccolo margine assottigliarsi sempre di più è stata una dura lezione sul funzionamento della democrazia. Non sarà dimenticata facilmente. Il Pd di Bersani non è riuscito a sconfiggere nemmeno un Berlusconi dimezzato. Dal 2008 il Cavaliere ha continuato a perdere pezzi e alla fine gli è rimasta vicina solo una Lega allo sbando. E nemmeno in questo contesto così favorevole la vecchia sinistra è riuscita a vincere. È stato un trauma. Per di più aggravato dalle vicende successive.
È allora che, prima inconsciamente e poi sempre più consapevolmente, il popolo di sinistra ha finalmente deciso di voler vincere e che per farlo doveva accettare Renzi. Entrambe le cose non sono scontate. La voglia di vincere non è un assioma. Ci sono ancora tanti elettori di sinistra che pur di non vincere con Renzi preferiscono perdere. E ce ne sono altri che ancora pensano di poter vincere senza Renzi. Ma la maggioranza oggi è arrivata alla conclusione, per convinzione o per rassegnazione, che Renzi sia la carta da giocare alle prossime elezioni. Ed è vero. Tutti i dati dicono inequivocabilmente che Renzi è l'unico candidato del Pd che può allargare i confini della sinistra andando a prendersi i voti sia tra gli incerti e i delusi sia tra coloro che a febbraio hanno votato Grillo o Berlusconi. È l'unico. Perfino i vecchi militanti del Pci lo hanno capito. Per questo affollano le feste del partito per andare a sentire quello che una volta era il marziano e oggi sembra essere diventato il salvatore.
Solo così si può spiegare quello che fino a pochi mesi fa era assolutamente impensabile: Renzi segretario del Pd. Il nuovo Pd. Quanto nuovo si vedrà. Intanto, a pensarci bene, la cosa è così straordinaria che fa sorridere. Improvvisamente, invece di dover conquistare il partito dall'esterno con il rischio di spaccarlo, Renzi ne diventerà probabilmente il segretario, e non solo il candidato-premier, dall'interno con il consenso di buona parte dell'apparato. Che poi riesca a fare la rivoluzione che ha annunciato e di cui l'Italia ha bisogno è tutto da vedere. Molti ci credono. La voglia di novità, di voltar pagina è tanta. Da tempo è così. Prima Berlusconi e più di recente Grillo ne sono stati i beneficiari. Adesso tocca a Renzi. Molti sono pronti a dargli una chance. Questo è il bello della democrazia. I leader si provano. Se non funzionano si cambiano.
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