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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2013 alle ore 06:42.

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Luca
Veronese La Spagna è stata salvata dal default dall'Unione europea un anno fa: il prestito di 41 miliardi concesso a Madrid è servito a ricapitalizzare le banche, ma senza quel finanziamento l'intera economia spagnola sarebbe fallita, incapace di sopportare il crollo del settore immobiliare che per almeno dieci anni, di investimenti e speculazioni, aveva permesso al Paese di vivere al di sopra delle proprie possibilità.
«È il lavoro la nostra vera sfida, la disoccupazione il nemico da sconfiggere», ha ripetuto fin dall'inizio del suo mandato il premier Mariano Rajoy. Eppure la Spagna ha oggi un tasso di disoccupazione superiore al 27%: un record nella storia democratica del Paese e nella zona dell'euro (Grecia esclusa). Tra i giovani con meno di 25 anni il dato è vicino al 60 per cento.
Nella crisi, anche in Spagna c'è stato chi a lungo ha negato l'evidenza. Lo ha fatto il governo socialista di Zapatero che non ha voluto vedere i segnali della recessione e delle tensioni sociali. E l'hanno fatto i ministri dell'attuale esecutivo che a lungo, per orgoglio o per incapacità, hanno rifiutato anche solo l'idea di chiedere aiuto all'Unione europea.
Anche a Madrid non sono mancati i balletti sulle misure fiscali - dall'Iva alle semplificazioni delle aliquote Irpef - e sui tagli alla spesa delle regioni. Oggi giorno della Diada, la festa più importante della Catalogna, le strade di Barcellona si riempiranno di cittadini che chiedono di essere nazione autonoma e urlano l'indipendenza da Madrid: sono la manifestazione più evidente di un problema ancora irrisolto, quello del rapporto tra Stato centrale e autonomie regionali. Che impedisce alla Spagna di controllare la spesa pubblica e ha portato Madrid a sforare per tre anni consecutivi gli obiettivi di bilancio concordati con i partner europei.
Eppure in Spagna, dopo aver toccato il fondo, qualcosa ha cominciato a cambiare. Rajoy, pur indebolito da un grave scandalo di fondi neri nel Partito popolare, non ha in realtà mai rischiato di cadere. Il governo può contare su una solida maggioranza in Parlamento e senza mai osare, quasi in silenzio, ha fatto quello che gli veniva chiesto da Bruxelles e ancora di più da Berlino: una riforma (ancora d tutta da valutare) per dare flessibilità al mercato del lavoro, una bad bank per sgravare le casse di risparmio dagli asset tossici dell'immobiliare, qualche taglio e poco altro.
Senza clamori, senza sfidare i mercati, la Spagna è ripartita dal fondo. Il costo del lavoro è sceso fino a rendere più competitiva la sua produzione. La svalutazione interna ha attratto investimenti - indicativi quelli dei grandi gruppi dell'auto: Ford, Renault, Peugeot-Citroën e Nissan - e ha dato forza alle esportazioni. I consumi interni sono precipitati e la Spagna si è aggrappata ai mercati internazionali, guardando anche lontano: nei primi sei mesi dell'anno le esportazioni sono aumentate nel complesso dell'8% rispetto al 2012 ma hanno fatto registrare notevoli incrementi nei Paesi emergenti: 13% in Cina, 40% in Brasile, 62,4% in Sudafrica. È così che l'economia spagnola è uscita dalla recessione e che le pressioni dei mercati sono diminuite.
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