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Questo articolo è stato pubblicato il 12 settembre 2013 alle ore 12:10.

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Base di Sigonella (Ansa)Base di Sigonella (Ansa)

Alla vigilia del dodicesimo anniversario degli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono e del primo anniversario dell'attacco contro il consolato statunitense di Bengasi in cui vennero uccisi dai jihadisti l'ambasciatore a Tripoli Chris Stevens ed altri 3 americani, il Pentagono ha rafforzato la task force di intervento rapido schierata da mesi nella base siciliana di Sigonella. Dopo i primi 200 militari trasferiti nel maggio scorso dalla base spagnola di Moròn, altri 250 marines della Special Purpose Marine Air Ground Task Force hanno raggiunto in questi giorni la base siciliana. Una forza specializzata nell'evacuazione di civili dotata di aerei cargo C-130 e convertiplani MV-22 Osprey in grado di raggiungere Tripoli nell'arco di 3-4 ore. Circa altri trenta marines, secondo un funzionario citati dalla Cnn, sono stati dislocati in diverse ambasciate della regione, altri 300 marines sono dislocati sulla nave da guerra San Antonio che si trova da giorni nelle acque del Mediterraneo orientale (la sua presenza era messa in relazione a possibili operazioni in Siria) mentre altri 250 marines rimangono nella base di Moròn, pronti per qualsiasi evenienza.

A un anno dall'attentato contro il consolato di Bengasi, gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a mettere le mani sugli assassini di Stevens, dei due militari e del funzionario del Dipartimento di Stato che lo accompagnavano. L'intelligence sostiene di aver identificato i responsabili ma non ha ottenuto la collaborazione auspicata da parte del Governo libico che sta perdendo il controllo del Paese e ha già perso quello di Bengasi e della Cirenaica. L'attacco al consolato è stato rivendicato dai qaedisti che con un comunicato dichiararono che Stevens «è stato assassinato come reazione della milizia Ansar al-Sharia all'uccisione di Abu al-Libi», numero due di al-Qaeda colpito da un drone americano nel Waziristan pakistano nel settembre dell'anno scorso. Il presidente Barack Obama promise che sarebbe stata fatta giustizia ma i quattro omicidi restano tuttora impuniti. Per circa un anno i droni americani hanno sorvolato i cieli di Bengasi raccogliendo informazioni. Oggi l'intelligence Usa ha identificato una decina di presunti responsabili e ha anche formalizzato le accuse nei loro confronti senza ottenere un supporto concreto dal Governo di Tripoli i cui uomini, militari e funzionari civili, sono oggetto di attentati, intimidazioni e attacchi quasi quotidiani a Bengasi. In città si muovono in assoluta libertà i salafiti di Ansar al-Sharia e altre milizie islamiste che nel 2011 hanno partecipato alla rivoluzione contro Muammar Gheddafi. Uno dei sospetti nel mirino di Washington è Ahmed Khattala, leader di Ansar al-Sharia formalmente accusato di omicidio ma che nessuno ha cercato di arrestare. La Casa Bianca deve fare i conti con le resistenze del Governo libico che non è in grado di perseguire i jihadisti e uscirebbe ancor più delegittimato da un raids condotto da mezzi e militari statunitensi.

Del resto proprio la politica adottata da Tripoli di attribuire alle milizie i compiti di sicurezza che le inconsistenti forze governative non sono in grado di espletare contribuisce a minare la sovranità del Governo centrale. Ansar al-Sharia è tra le milizie formalmente incaricate della sicurezza di Bengasi. Possiede un grande quantitativo di armi ed è collegata a una potente organizzazione caritatevole salafita, al-Dawa wa al-Islah, finanziata dall'Arabia Saudita. Improbabile che il Governo del premier Ali Zeidan riesca a imporle la consegna degli uomini ricercati dagli Stati Uniti neppure quando, entro fine anno, verranno dispiegati a Bengasi i primi 400 poliziotti addestrati dai consiglieri italiani dell'Operazione Cyrene.

Secondo il New York Times, per giungere alla cattura dei responsabili dell'attacco al consolato è stata chiesta anche la mediazione di altre milizie di Bengasi (tra le quali la più potente è la Lybian Shield composta secondo le stime da 20/30 mila miliziani di diverse tribù) che però hanno rifiutato ogni collaborazione con Tripoli e Washington. La stessa Lybian Shield, ufficialmente assoldata dall'esercito libico, è protagonista di scioperi e contestazioni per ottenere da Tripoli aumenti di stipendio, nuove assunzioni (un miliziano riceve dallo Stato 5.700 dollari annui) e posti pubblici,anche se i suoi componenti sono responsabili di molti omicidi, rapine, sequestri di persona e detenzioni illegali.

A Tripoli la situazione non è migliore. I Comitati supremi di sicurezza (Ssc), la milizia che controlla la città con i suoi dichiarati oltre 100 mila miliziani, ufficialmente dipendono dal Ministero degli interni ma in realtà obbediscono solo al loro capo, Hashim Bishr, 42enne fautore dell'imposizione della sharia considerato vicino all'Arabia Saudita, dove ha frequentato studi coranici. L'instabilità generalizzata ha indotto il 7 settembre il Gran Mufti della Libia, Sheykh Sadiq al-Ghariani, a chiedere di sfiduciare il Governo del primo ministro Ali Zeidan per le precarie condizioni di sicurezza, gli incessanti episodi di criminalità e la disastrosa crisi petrolifera causata dagli scioperi in corso dalla fine di luglio nei maggiori siti di estrazione e di esportazione di petrolio. Anche il Partito Giustizia e Costruzione, ala politica dei Fratelli Musulmani libici, ha minacciato di ritirare i suoi ministri dall'Esecutivo.

In questo contesto caotico l'Italia ha confermato il suo impegno per la sicurezza della Libia (rafforzato anche in seguito alle richieste statunitensi) attraverso programmi di addestramento e di consegna di equipaggiamento a esercito e polizia. Roma ha elaborato un programma d'addestramento che prevede di istruire in tre anni 5200 agenti e soldati libici con una serie di cicli addestrative che impegneranno 300/400 reclute ognuno. Le autorità italiane e libiche in coordinamento con i partner G8, con la Turchia e con Unsmil (Missione di Sostegno delle Nazioni Unite in Libia) stanno definendo i parametri tecnici del programma addestrativo. Una delegazione della Difesa italiana, insieme all'Ambasciata a Tripoli, ha partecipato il 5 settembre alle riunioni dei gruppi di lavoro convocati dal Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale libico per definire i criteri di selezione delle reclute. Sul suolo libico continuano le attività addestrative dei consiglieri dell'Operazione Cyrene, al momento poche decine di unità provenienti da tutte le forze armate e di polizia ma destinati a salire fino a 100 effettivi. Oltre alle 5 mila addestrate in Italia altre 14.500 reclute verranno istruite nei prossimi anni in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Considerato il bacino di arruolamento delle forze di sicurezza libiche presso milizie di ispirazione islamista è però consistente il rischio di spendere il denaro dei contribuenti per addestrare jihadisti e futuri terroristi.

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