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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2013 alle ore 08:14.

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ROMA
La sobrietà è ormai il suo standing e non l'abbandona neppure stavolta. Ma con il passare dei giorni, con l'avvicinarsi del voto sulla decadenza di Silvio Berlusconi, mai come ieri Enrico Letta era stato così netto, a tratti pungente, tanto che, ammette, «spesso devo mordermi la lingua». Prima alla Fiera del Levante a Bari e poi a Chianciano, ospite d'onore della festa dell'Udc di Pier Ferdinando Casini, il premier oltre a rivendicare i meriti del suo governo – «cinque mesi di fatti e non di annunci» – lancia una sorta di aut aut.
Se ci sarà la crisi «resterà l'Imu» e legge di stabilità «ce la scriverà l'Europa e la scriverebbe diversa da noi», avverte il premier, che conferma «il taglio del cuneo fiscale» e non ammette ripensamenti sulla tassazione degli immobili: «Dal primo gennaio nasce la service tax, che io difendo, che è un passaggio che semplifica perché mette insieme anche la Tares, una tassa federalista che darà ai comuni quello che oggi non hanno».
I moniti giunti venerdì da Bruxelles e soprattutto dai mercati, con la risalita dei tassi d'interessi, sono un costoso campanello d'allarme. E tanto per quantificare: «Se scendessimo nei prossimi quattro mesi al 4%, come in Spagna, avremmo un miliardo da usare, se invece salissimo al 5% un miliardo lo dovremmo trovare». È il costo dell'instabilità. Un rischio che l'Italia «non si può permettere».
Ricette miracolose «non esistono». Per salvare l'Italia serve «serietà», non «annunci shock» e tanto meno «uomini della provvidenza». E a chi gli chiede dell'ipotesi di maggioranze diverse risponde: «Non possiamo più permetterci l'instabilità basata sui giochi politici perché minano la ripresa».
Per questo si dice certo che nessuno «vorrà prendersi la responsabilità di mandare a gambe all'aria il governo», che le polemiche su voto palese o segreto su Berlusconi non lo riguardano, e si dice sicuro che dopo mercoledì «non succederà nulla». Anche perché chi oggi critica le larghe intese non è in grado di indicare alternative. «Io non sono qui a fare manutenzione ordinaria. Non ho accettato un ruolo del genere in questa logica», ma per «cambiare il Paese». E tra questi cambiamenti c'è anche la riforma elettorale e quella costituzionale.
Il premier dice che il Porcellum presto sarà «verosimilmente» dichiarato «incostituzionale» dalla Consulta, che si pronuncerà i primi di dicembre. E in ogni caso tornare a votare senza cambiare la legge elettorale è «uno sbaglio» perché «sarà di nuovo impasse». Ai cronisti che gli chiedono se il governo uscirà indenne dal voto su Berlusconi, alza il pollice verso l'alto.
Ma resta un auspicio più che una certezza. I venti di guerra continuano a soffiare con insistenza. «Letta sbaglia a ostentare tanta sicurezza: sappia sin d'ora che il Pdl non rimarrà in ginocchio al governo se fanno decadere Berlusconi», tuona Daniela Santanchè. Anche Renato Brunetta va giù duro: «Letta non può astenersi, deve prendere posizione, dare un giudizio chiaro perché si tratta della sua maggioranza». Ma non è solo dai falchi del Pdl che il premier si deve guardare. Lo scontro interno al Pd per il congresso, il ruolo di Matteo Renzi sono mine altrettanto pericolose per la stabilità dell'esecutivo. Il premier minimizza. Assicura che con il sindaco di Firenze «non c'è nessun problema» (si veda anche l'articolo a pag 22), che le vicende congressuali non lo riguardano perché lui resta «concentrato» sull'attività di governo, confermando di non voler appoggiare alcuna candidatura per la segreteria del Pd.
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